Ho i piedi bloccati nel fango.
Intorno a me non c’è nessuno, e posso sentire chiaramente le vipere muoversi tra l’erba.
Ho perso la strada maestra. I sentieri che portano alle celle sono decine, scavati dai monaci più di mille anni fa, erosi dalla natura, dal tempo, distrutti impietosamente dagli anni di regime dell’URSS. E ovviamente non potevo non averne preso uno cieco.
Sento delle voci qualche metro più in alto: “Hey there! Are you on the main path?”
”Yeah! Do you need help?”
No, ovviamente no, posso cavarmela da sola come sempre.
Il frusciare dell’erba mi convince a prendere rapidamente una decisione. Afferro la terra con le mani e inizio a salire, mi aggrappo agli arbusti e ai ciuffi d’erba, sento la terra sotto le unghie, non se ne andrà per giorni. Due mani mi afferrano e mi tirano su di peso. “Thank you.”
Grazie. Madloba. Spasìba. È la parola che ho detto più spesso in dieci giorni qui.
Grazie dell’aiuto, dell’ospitalità, del buon consiglio, della compagnia. Grazie per aver diviso con me quel poco che abbiamo entrambi.
È un viaggio in cui si entra totalmente in un’altra dimensione, fatta di attese, pazienza, sudore, fatica e gratificazione. Per la prima volta non c’è stato il minimo spazio per la vanità. Ogni vezzo è stato abbandonato, ogni cosa non strettamente necessaria lasciata a casa, o per strada.
Già all’arrivo all’aeroporto di Kutaisi comincio a prendere familiarità con le facce che reincontrerò nei giorni a seguire nelle parti più remote del Paese. Facce stanche, sporche di terra, graffiate, in maglioni larghi e scarponi da trekking. Tutti uguali, tutti figli del Decathlon.
Tra i trekkers si instaura la complicità di chi capisce il tuo bisogno di libertà, di solitudine e di compagnie nuove per aprire la mente al mondo e alla diversità. Vi salutate, tra sconosciuti, vi sorridete a vicenda, dividete la vostra chacha o qualche pezzo di khachapuri freddo, e vi fate coraggio lungo il sentiero, rispettando anche chi vuole rimaner solo.
La Georgia è un posto incredibile. Millenni di storie sovrapposte e luoghi incontaminati, tanto remoti e impervi da essere stati protetti dalla mano dell’uomo e dal divenire spietato della memoria.
Nelle interminabili ore di marshrutka il paesaggio scorre come pellicola, passano le ore, cambiano i colori, le case, le vesti delle persone.
Le strade dividono in due paesi senza nome, sul ciglio costruzioni abbandonate, scheletri sovietici di un passato troppo vicino, un carro armato a un certo punto, anziane signore con i fazzoletti sul capo.
Sulla via il bestiame pascola indisturbato, un uomo porta sulle spalle il giogo guidando i buoi, e le auto si fanno strada con gimkane tra le mucche e i vecchi camion della guerra usati adesso per trasportare il fieno.
L’autista fuma nervosamente Pirveli rosse, le nazionali georgiane, veleno puro per i polmoni (fidatevi). Mangia semi di girasole che poi sputa dal finestrino, e rallenta ogni volta che incrociamo donnone provocanti passeggiare sul bordo polveroso. Il cruscotto ha su santini ortodossi e un finto simbolo BMW. Ad ogni chiesa (e sono molte) lui e l’altro omone al quale sono schiacciata nel posto centrale fanno tre volte il segno della croce toccando prima la spalla destra, secondo il rito bizantino.
Fanno lo stesso anche le donne salendo su questi affari vecchi e pericolosi che corrono sulle strade non asfaltate di montagna. Non asfaltate, con i bordi smottanti, senza protezioni o guardrail. Bloccate da frane improvvise, che ci fanno fermare e spostare i massi con le mani. Strade con gallerie buie e allagate, con il soffitto incerto, nelle quali si procede a passo d’uomo con le gomme bloccate nel pantano.
Strade in cui non puoi guardar giù. In cui hai sopra di te le nuvole ma sotto, a strapiombo, il nulla.
L’uomo non è riuscito a piegare la natura, si è solo infilato come ha potuto negli spazi che ha potuto ritagliarsi.
“Voi come andrete a Tiblisi?”
“Credo in aereo”
“Io non penso, cercherò una marshrutka. Ho sentito che gli aerei spesso non partono perché manca il carburante.”
“O per il tempo. Siamo sul Caucaso.”
“Già, non voglio morire spiaccicata su queste montagne.”
“Sì ma..(indica il vuoto sotto di noi) forse tra le due preferirei morire in aereo. Hai più tempo per apprezzare questo spettacolo.”
Viaggiare soli vi permette di riscoprire tutta la bellezza che c’è nel partire. Vi permette di conoscervi meglio, costretti a non sentir nulla se non le parole nella vostra testa. Vi permette di capire come reagite davvero agli imprevisti, o alle situazioni di pericolo, senza il filtro inevitabile del sapere che qualcuno vi guarda, o che vi guarda le spalle.
Siete solo voi e gli insegnamenti dell’esperienza che nessun corso di esame potrà mai darvi. E capirete presto che non importa quanto possiate essere immersi nel fango, nella merda (non metaforicamente). Quanto la salita possa essere ripida e la strada bloccata dalle piogge.
C’è sempre un altro sentiero, non battuto. E ancora non importa quanti massi dovrai spostare da solo, quanto sudore dovrai asciugarti da solo dalla fronte, quante pietre dovrai porre per asfaltarlo.
Ci sono dei momenti in cui pensi davvero a chi te lo ha fatto fare, che avresti potuto seguire la via e semplicemente aspettare che qualcuno facesse per te.
Ma arriva il tempo, a un certo punto, in cui ogni ostacolo, ogni imprevisto, ogni pioggia, impari ad accoglierla, non la rimpiangi.
Perché ogni esperienza negativa è esperienza in più.
Serve ad imparare a stare al mondo, perché per non esserne sopraffatto devi saper tirar fuori le palle.
E in un modo o nell’altro dovrai pur fartele crescere.
Oltre i sentieri battuti.
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