Sono dell’idea che quando un pensiero malsano ti attraversa la mente tu debba attuarlo e basta.
(E infatti la mia vita è abbastanza incasinata, ma almeno non mi privo di nulla.)
Se ti fermi troppo a pensare alle mille e più conseguenze negative che potranno avere le tue azioni, spesso finisci per rimanere immobile a congelarti il didietro mentre aspetti che la vita si viva da sola. Questo non vuol dire che uno debba vivere sempre come gli piace e tralasciare le responsabilità, dico solo che un pizzico di follia a volte non guasta, perché ci ispirerà le cose più belle che passati anni ricorderemo ancora, anche se hanno finito per incasinare le cose.
Premetto dicendo che sono una maniaca del controllo, patologica senza speranza, che ha sempre il bisogno di sapere tutto come sta andando e come andrà a finire. Mi piacciono le sorprese solo se so già che piega prenderanno, e di norma avrei voglia comunque di prendere in mano la situazione e far tutto da me.
E invece viaggiando ho trovato la mia valvola di sfogo. Attenzione, è stata una cosa graduale, e fino a un anno fa ancora preparavo la guida perfetta che pianificava quando avrei mangiato e anche quando mi sarei fatta la doccia. Con buona pace di chi partiva con me.
Ma da quando ho ottimizzato il metodo e parto da sola devo dire che l’esperienza ha preso un senso che prima non le davo.
Inghilterra, Grecia, Turchia, Georgia, Azerbaijan, Ungheria, Bulgaria, non c’è bisogno di strafare per godersi un po’ di tempo con se stessi, da soli, con il proprio cervello e le parole che fluiscono senza ordine, o logica, nella mente, quando non hai nessuno cui rendere conto, nessuno che ti dica cosa fare o ti consigli come farlo meglio.
Tu decidi, tu sbagli. Tu prendi il merito (solo con te stesso) dei tuoi traguardi.
E anche stavolta è andata così. Vediamo dove costa meno un volo per partire tra qualche giorno. Bulgaria? Andata.
Solo dopo ti accorgi che tutte le cose che volevi fare in Bulgaria in realtà sono impraticabili per la stagione. Che l’unica cosa che volevi realmente vedere (il monumento di Buzludzha) è inarrivabile se non con “tour del comunismo” privati che te prego, piuttosto me la guardo su Google Earth.
Che il giorno prima della partenza hai un esame e non potrai programmare nemmeno dove dormire.
Ma chi se ne frega, come scrissi meglio tempo fa tutto è esperienza. Anche quelle cose che ti fanno passare la voglia, passa tutto.
Perciò chissene, ostelli in overbooking a due giorni dal volo, bus cancellati da paesi sconosciuti a mete fantasma che non sai come rimpiazzare. Siti in bulgaro che “Grazie Prof.ssa Vaghetti che ci sequestrava i bigliettini, così abbiamo imparato a scriverli in cirillico”. Computer rotto per l’ennesima volta. Fondi spariti nel nulla, spese impreviste, Tottenham-West Ham persa mentre stai crepando di freddo su un bus a Dimitrovgrad, che accidenti a me e a quanto stress in più devo accumulare, la prossima volta rinasco juventina.
Eppure quando sei lì, che scendi dalla scaletta con il freddo che ti entra nei polmoni, e cammini veloce con la tua borsa, sollevata per non dover aspettare nessuno, non dover chiedere a nessuno di cosa abbia bisogno, perché importi solo tu. Ecco lì, proprio lì ti accorgi del sorriso un po’ ebete che hai stampato sul viso, un pensiero di libertà che ti fa sentire onnipotente. Non c’è niente che tu non possa fare, non hai catene o responsabilità, non ora. “Non ho mai timbrato la cartella in vita mia, non comincerò a farlo adesso”.
Il vecchio ha ragione, e il ritardo del volo, la confusione del sistemarsi appena arrivata, l’ansia per come muoversi se l’ultimo bus è già partito, tutto sparisce.
Non c’è nessuno che mi aspetta, nessuno che ha fame, che è stanco, che vuole per forza vedere quella cosa di cui a te non importa veramente niente. Come può esserci più libertà di questa?
C’è più libertà, c’è sempre. C’è nell’alzarsi alle cinque del mattino nella nebbia che la fa da padrona in Bulgaria, seguire da lontano le torri della centrale con il fumo che ti fa sentire che qualcuno come te è già sveglio, non stupirsi se a nessuno importa che il treno parta in orario, e quaranta minuti dopo stia ancora dormendo, o mangiando la sua brioche, mentre tu con i carboni ardenti sul sedile ti chiedi perché non parta, se sia il treno giusto, se arriverai in tempo per cominciare l’escursione ad un orario decente.
Puoi fare qualcosa per risolvere la cosa? No. E allora siediti, guarda fuori i binari arrugginiti che a malapena si intravedono nella nebbia grigia, guarda il ragazzo davanti a te, con il suo caffè freddo e la pizza che sta portando alla nonna, guarda le case che scompaiono oltre il vetro, e le sorgenti, e le montagne, e il controllore in piedi sulla porta aperta che si sporge dopo che il treno è partito.
Quanta bellezza si trova dove i più non guardano. Dove credono non ci sia nulla che meriti la loro attenzione. Queste cose bisogna imparare a scovare, e a guardare con gli occhi di chi sa che la bellezza non ha forma, ma prende forma nell’occhio di chi guarda.
E con quel treno diretto a Lakatnik, con quel ragazzo che andava dalla nonna e le stazioni che scorrevano senza nome, andavo a raggiungere uno dei percorsi di hiking più belli, il primo in montagna fatto interamente da sola.
Due ore e mezza per arrivare in cima, sopra le croci di vetta e i nidi delle aquile, guardando dall’alto il paesaggio diventare viola e indistinto. Una camminata ripida, a volte, ma non impossibile. I segnavia bianchi e rossi fanno bene il loro dovere, e dove mancano se guardi attentamente puoi scorgere i segnali lasciati dagli altri quando il sentiero non si vede più. Piccole bamboline di fili di cotone, filature intrecciate agli alberi per segnare la strada.
E se sei abbastanza sicuro di poter ritrovare la strada, scegli la via più ripida e arrampicati. Dal caldo tiepido del sole in dieci secondi arriva il gelo notturno, in una foresta di tronchi bianchi tra i quali il sole non è mai passato, la testa bassa taglia le ragnatele e la macchina fotografica non riesce più a imprimere i dettagli. E piano piano sei in cima, in un tappeto di foglie cadute, a guardare dall’alto la ferrovia, mentre euforico mangi tutto il cibo che sei riuscito ad infilare nello zaino e chiami la tua migliore amica. Perché forse l’unica volta che ti pesa esser solo è quando la felicità è così tanta che non puoi sfogarla contro il vento.
La Bulgaria è un Paese meraviglioso, i bulgari sono persone meravigliose, e non è la classica frase generalista che si dice quando si fa visita a un posto nuovo. Ogni volta che ho avuto bisogno, anche senza poterci capire ho trovato qualcuno che teneva – veramente – ad aiutarmi.
Come la signora bionda di Haskovo, che parlava solo bulgaro e si capiva a malapena con il suo ospite spagnolo, ma che in tre lingue e tanti gesti è riuscita a mettermi su un bus per Dimitrovgrad. Come l’anziano a Sofia che mi ha portata dove mai, davvero mai, sarei potuta arrivare da sola, e al quale i cinque leva dati per ringraziarlo mi sono sembrati niente per la gentilezza. O la tabaccaia di Nessebar, che ha smosso mari e monti per sapere da dove sarebbe partito il mio bus dell’alba, e per trovare un amico che parlasse inglese che potesse spiegarmelo al telefono. E dopo mezz’ora ha chiuso il chiosco e mi ci ha portata di persona, mentre tentavamo di congedarci a vicenda ridendo con Google Translate.
E a far da contrasto a questa gente piena di sole il grigio delle file continue di palazzoni numerati, chiusi a ghetto, in ogni antro sperduto del Paese. Edifici di cemento armato con gli scheletri a nudo, che sembrano abbandonati tanto sono malridotti, arrugginiti, ma non lo sono. I vetri rotti sono coperti con pannelli di legno, gli infissi crollati e i tetti ancora peggio. Ma le fabbriche sono ancora aperte, e così gli uffici con i computer a tubo catodico che mandano gli screensaver a ripetizione.
La scuola accanto alla centrale chimica di Dimitrovgrad ha lo steccato caduto, l’erba alta incolta e le porte spaccate. Con le mani attorno agli occhi da fuori attraverso i vetri si vedono ancora bene i dipinti sul muro, con Gagarin al posto di Gesù, e scienziati al posto dei Magi. Paesi con le strade che passano in mezzo, e la nebbia che copre tutto, i depositi, le rade case, i silos pieni di grano.
Ci sono cose che non ho potuto fotografare, che poi sono le cose che mi sono rimaste nel cuore. Ma credo nel pudore, e nel rispetto, nel non violare l’intimità delle persone, specie quando sono più vulnerabili. Così rimarranno impresse nella sola memoria le immagini del vecchio con la topa, che sotto i passaggi della stazione di Sofia vendeva scarpe. Quattro, forse cinque paia, da uomo e da donna, tutti diversi. E dell’uomo col cappotto nero lungo fino alle caviglie che ne ha comprato uno.
Gli anziani con le buste di plastica piene di chissà cosa che scendevano dai treni, ogni giorno, e per le vie della città. Le donne con le giacche squadrate di quando c’era ancora un muro con l’occidente e le ragazze dai capelli corvini, le finte pellicce e gli stivali sopra il ginocchio. Gli immigrati di notte far la fila fuori dagli internet point per chiamare casa. L’operaio della rete elettrica con la divisa consunta e i capelli legati in una coda, il viso sporco e segnato dalle rughe. Il vecchio turco alla stazione dei bus, dietro il vetro con le mani congiunte dietro la schiena, aspettava il pullman per Istanbul per tornare a casa. L’autista di Sunny Beach con i vestiti troppo larghi e i capelli grigi, in cui ho creduto forse di vedere mio nonno.
Viaggiare è vivere le persone, camminare con loro, prendere il treno con loro, aspettare insieme un verde al semaforo o osservarle da un finestrino, ascoltare le loro storie, anche se non riescono a raccontartele.
E da vivere qui c’è davvero tanto, ma a meno che non abbiate un mese a disposizione, il mio consiglio è questo: andate alla stazione dei bus appena arrivati a Sofia, e sceglietene uno a caso. Girate una città al giorno, anche se non avrà niente di rilevante o di diverso dalle altre. Perché?
Perché questa è la Bulgaria. Non sono i monumenti di Sofia o i casinò del Mar Nero. I puttan-tour e i percorsi per coppiette. È la massificazione sovietica, la spersonalizzazione imposta per decenni dove l’aria grigia è tagliata dal colore delle insegne al neon, dalle “M” dei fast-food con i menu in cirillico, con la musica techno sparata a tutto volume perché tu ti muova ad andartene da lì.
È il capitalismo che si infiltra tra le fessure lasciate dal crollo del comunismo, che combatte il conformismo grigio con quello luccicante del nuovo millennio. Non è un Paese di contraddizioni questo, è un Paese che non è stato travolto dal nuovo, ma lo ha accettato, inglobato, ma senza mai perdere la propria identità.
Non è un Paese per turisti.