Dopo lo shock di oggi abbiamo provato a dire la nostra su questa inaspettata vittoria di Donald Trump.
Buona lettura!
Giulio Profeta
Giusto ieri mettevo in guardia, prefigurando una vittoria della Clinton, dal ritenere Trump una meteora e considerarlo, piuttosto, come un prodotto dell’attuale società.
Questa mattina Donald Trump è stato, al contrario di ogni previsione, incoronato come 45esimo Presidente degli Stati Uniti grazie ad una marcia trionfale in due specifiche aree: Midwest e Florida.
Come dimostrano i flussi di voto, oggettivi e attendibili rispetto ai sondaggi, possiamo vedere come Lady Clinton non sia andata malissimo conquistando addirittura la maggioranza relativa del voto popolare.
Cosa quindi è andato storto?
Nel sistema di voto statunitense serve conquistare la maggioranza dei Grandi Elettori assegnati Stato per Stato in ragione della loro demografia, avere la maggioranza dei voti elettorali non garantisce automaticamente il successo; Trump, a questo punto possiamo pensare lucidamente, ha investito tutta la sua campagna elettorale nel Midwest e in Florida parlando di temi molto sentiti in quelle zone come la deindustrializzazione o la paura per l’immigrazione.
La Clinton, al contrario, si trovava nella sgradevole situazione personale di essere a un tempo la moglie del Presidente Clinton principale promotore negli Anni Novanta della deregolamentazione del sistema finanziario, causa sul lungo periodo della devastazione economica del Midwest, e nell’altro una delle principali supporter dei trattati di libero scambio avversati oggi da larga parte degli americani bianchi.
Ci sarebbe da dire molto altro ma mi soffermo solo su un altro particolare.
Le minoranze oggi sono negli Stati Uniti molto più liberiste rispetto al segmento elettorale WASP(White-Anglosaxon Protestant), forse perché più interessate ad avere pari condizioni di partenza con i bianchi che tutele sociali (più Stato=più tasse e le tasse sono odiate negli Stati Uniti)
All’opposto sempre più bianchi, e non è un caso che i bianchi furono i principali fans di Bernie Sanders, hanno preferito la svolta “sociale”, presunta o meno, posta in atto da Donald Trump.
Che ora, davanti a se, ha il compito di rispettare le promesse elettorali (molto nebulose e poco concrete ma, forse, col senno di poi questa è stata una sua forza).
MARCO D’ALONZO
Oltre ad aver prodotto mutamenti politici ed economici di ogni sorta, gli ultimi sette decenni ci hanno insegnato che gli Stati Uniti, in quanto superpotenza globale, non possano essere considerati esentati da responsabilità a livello internazionale e, pertanto, si rende necessaria una disamina sui possibili risvolti, in quest’ultimo campo, dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.
Innanzitutto, è imperativa una premessa: chi, negli ultimi mesi, ha paventato l’eventualità di una rapida degenerazione dello scenario planetario, evocando perfino lo spettro di una Terza Guerra Mondiale, nell’ipotesi, stanotte divenuta realtà, di una vittoria dell’imprenditore newyorchese all’Election Day, non solo non conosce Trump, ma non ha neppure ben chiara la linea politica di Hillary Clinton, la grande sconfitta di questa tornata elettorale. Accanto ad evidenti limiti comunicativi e, soprattutto, di esperienza, al netto dell’aspetto ideologico e propagandistico, più o meno discutibile, ma del tutto irrilevante in politica estera, il tycoon non presenta affatto quello dell’inclinazione guerrafondaia. Anzi, se c’è stato un tasto su cui Trump ha premuto durante l’estenuante campagna dell’ultimo anno e mezzo, esso è stato proprio la volontà di instaurare una politica isolazionista, improntata sull’antico principio dell’”America first”, mai del tutto tramontato oltreoceano, ben diversa dalla Dottrina Bush, quella sì interventista, le cui conseguenze sono tutt’ora agli occhi di chiunque.
Non è da sottovalutare, inoltre, l’intesa conclamata tra Trump ed il presidente russo Putin, il quale aveva pubblicamente auspicato una sua vittoria contro la candidata democratica e che, non più tardi di stamattina, ha parlato apertamente di essere favorevole ad un “pieno ripristino dei rapporti con gli Stati Uniti”. Ci sarà da aspettarsi, dunque, stando a questo elemento impossibile da tralasciare, non certo un inasprimento delle tensioni tra Washington e Mosca, bensì l’opposto, con un dialogo tanto probabile quanto auspicabile, anche per noi europei. Allo stesso tempo, tuttavia, questo significherebbe un sostanziale abbandono della causa dei ribelli siriani, che la Clinton avrebbe probabilmente armato massicciamente in ottica anti-Assad, nonché del governo ucraino, alle prese con i separatisti filorussi del Doneck e del Luhansk e con un’annessione, tanto spudoratamente illegale quanto pienamente effettiva, della Crimea da parte di Putin, che l’ex First Lady avrebbe spalleggiato con maggiore vigore rispetto ad Obama, coinvolgendo anche il resto della Nato.
In conclusione, fermo restando che entrambi i candidati presentassero limiti innegabili e, a parere di chi scrive, inaccettabili per una carica tanto importante per gli equilibri mondiali, una politica statunitense di isolazionismo potrebbe, nell’immediato, indebolire la già fragile Unione Europea, da sempre dipendente dalla guida non sempre illuminata di Washington, ma, dall’altro ed in una prospettiva più ampia, essere un’occasione perché il Vecchio Continente si emancipi, intraprendendo finalmente una politica estera e di sicurezza autonoma, indipendente e scevra da condizionamenti esterni, tanto russi quanto americani.
Certamente, non solo l’esito, ma anche l’intero svolgimento di questa tornata elettorale, devono far riflettere sul declino degli Stati Uniti d’America, i cui due partiti non sono riusciti a fornire all’elettorato due figure davvero presentabili, seppur per motivi diversi. Non resta che sperare che il passaggio, consumatosi in vent’anni, da George Bush sr. e Bill Clinton a Donald Trump ed Hillary Clinton non sia irreversibile, perché, mettendo da parte un certo antiamericanismo di maniera, è nell’interesse di tutto il mondo che la stabilità del Paese più potente del mondo sia preservata.
FRANCESCO CRISTALLO
SE LO VOTI NON VALE
Lo ammetto, non ho mai amato né la politica americana né le modalità di elezione del Presidente degli USA. Non amo il suo forzato sistema bipolare che non garantisce la giusta rappresentanza politica dei vari, e numerosi, strati della popolazione statunitense e che unisce sotto due partiti le molteplici sfaccettature e personalità degli Stati Uniti d’America. Non amo il metodo delle primarie, dato che vince chi ha più risorse e chi spende di più, non considerando quindi, o considerando in maniera marginale, le competenze dell’aspirante leader. Non amo l’esasperata faziosità, sia per l’uno che per l’altro schieramento, dei network televisivi e della carta stampata americana (ma d’altronde sia i network che i giornali americani sono per la maggior parte privati e la faziosità del mondo dell’informazione è fisiologica in un sistema politico democratico). Non amo vedere le star dello sport, del cinema o di altri settori prendere posizione in maniera così netta per uno dei due candidati.
Ma, soprattutto, non ho mai amato le modalità con cui le campagne elettorali per l’elezione del Presidente degli USA vengono portate avanti.
Se fino alle ultime elezioni del 2012, le quali hanno riconfermato Obama per il suo secondo ed ultimo mandato alla Casa Bianca (e questa cosa la amo), ho provato perlopiù sentimenti di non amore ed indifferenza verso la politica americana, quello che invece ho provato per le elezioni presidenziali di ieri notte è puro e profondo odio.
Odio perché la campagna elettorale è stata orrenda, incentrata maggiormente sulla negative campaigning, cioè sul tentativo, da ambo i lati, di delegittimare l’avversario piuttosto che esaltare il proprio programma politico. A proposito di quest’ultimo, Trump nei suoi “contenuti” è stato delirante e sicuramente non realizzerà nulla di ciò che ha detto, sia in tema di immigrazione che in tema di politica estera ed economica. La Clinton invece si è dimostrata debole sin da subito: dopo la controversa e contestata vittoria alle primarie contro Bernie Sanders (il quale, secondo il mio modesto parere, nel confronto con Trump avrebbe vinto) ha impostato la sua campagna elettorale con dichiarazioni standard e reiterate quali l’assoluta incapacità di Trump di essere presidente e la sua auto-celebrazione come persona più indicata a rivestire quel ruolo. La Clinton ha voluto quindi creare un’immagine di sé di donna forte e capace. Ma le persone forti non hanno bisogno di investire 500 milioni di dollari in campagna elettorale (Trump ne ha spesi circa la metà), non hanno bisogno di testimonial famosi ad ogni dibattito e non hanno bisogno del sostegno del presidente uscente, o almeno non così tanto come in questa campagna elettorale.
Tralasciando gli scandali (che hanno comunque avuto un peso fondamentale), veri o meno, i quali comunque fanno perdere tempo utile all’avversario perché costretto a smentire, la qualità dei candidati e delle loro rispettive campagne elettorali è stata terrificante.
Una nota di merito va comunque a Trump, che nel suo primo discorso da presidente ha ringraziato Hillary Clinton per la battaglia (bruttissima, nda) ed ha abbandonato i suoi soliti toni aggressivi per cercare di ricucire lo strappo interno al paese che ha diviso nella maniera più netta di sempre i due elettorati. D’altronde, in una politica ormai entrata nella fase di campagna elettorale permanente, Trump sta già ragionando in ottica 2020 per ottenere il suo secondo mandato.
La nota di demerito va invece ad Hillary, la quale, dopo la bruciante sconfitta, non si è presentata davanti ai suoi elettori nel suo quartier generale, e quest’ultimi sono stati invitati a tornare a casa dal capo della campagna elettorale dell’ormai ex Segretario di Stato.
Uscendo fuori dal territorio americano per analizzare le reazioni al risultato statunitense a livello nazionale ed europeo, la cosa più terrificante è stata nuovamente la delegittimazione del suffragio universale e del voto popolare. Come per la Brexit, alcune personalità che orbitano intorno, o all’interno, del mondo della politica fanno fatica ad accettare il risultato scaturito delle urne a stelle e strisce. Per alcuni di loro, i quali si ergono a paladini della democrazia quando il risultato segue le loro preferenze, votare per Trump non è considerato valido, così come per il referendum britannico di giugno e così per altre tornate elettorali precedenti e, immagino, successive. Il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha dichiarato che con l’elezione di Trump i rapporti con l’America saranno più difficili, partendo già col piede sbagliato e delegittimando così il voto di milioni e milioni di americani. Il governo italiano ha sempre appoggiato in maniera netta Hillary Clinton, e resterà quindi da vedere come Renzi gestirà i rapporti con il neo-presidente Trump. L’ultima e clamorosa dichiarazione arriva dal presidente emerito Giorgio Napolitano, il quale ha affermato, ai microfoni di Radio 1, che “la vittoria di Trump è uno degli eventi più sconvolgenti della storia del suffragio universale”. Vorrei ricordare a Napolitano che Trump, come Hillary Clinton, ha vinto le primarie all’interno del Partito Repubblicano (anche se la sua scalata è avvenuta fuori dal partito e contro quest’ultimo) ed è stato eletto con metodi democratici. Sconvolgente è quanto accaduto in Italia negli ultimi anni con tre presidenti del Consiglio nominati dal presidente emerito e appoggiati da una maggioranza artificiale e piena di forzature e dissidi.
L’elezione di Trump, piaccia o no, è legittima e, soprattutto in politica, bisogna saper perdere e accettare le sconfitte senza criticare le scelte del popolo sovrano. Nessuno ha la verità in tasca e nessuno può dire cosa è giusto e cosa è sbagliato con assoluta certezza. A proposito di “verità” e “assoluta certezza”, invito tutti a non guardare più i sondaggi, tanto non è con questi che si legittima o delegittima qualcuno e, soprattutto, non è con questi che si vincono le elezioni.
GIORGIO PACINI
Hillary Clinton, una sconfitta già annunciata nel 2008:
come per la mattina dello scorso 24 giugno, in cui è stata rivelata la volontà della Gran Bretagna di abbandonare l’UE, stamani l’Italia si risveglia col fiato sospeso e incredulo: Donald Trump ha davvero vinto le presidenziali tenutesi negli Stati Uniti! Cori unisoni di opinionisti fomentano lo spauracchio di una spirale senza fine, iniziata appunto con la brexit, che passa per queste elezioni e profetizza un’impennata delle estreme destre europee in Francia, Olanda, Germania ed Austria. Per carità queste preoccupazioni sono condivisibili, però la classe politica non può più permettersi il lusso di stupirsi dopo tali esiti, piuttosto è chiamata a evitarli prima che si realizzino. Questa storia ormai ci suona tanto famigliare quanto noiosa, come al solito i sondaggi vengono smentiti dal voto popolare, perciò sembra ormai evidente che non siano strumenti affidabili per monitorare una società sempre più volatile. Come in Europa la vecchia divisione destra – sinistra ha perso di significato agi occhi dei cittadini, anche la divisione tra democratici e repubblicani si è indebolita: mai quanto oggi non si vota più per i partiti ma per il narratore più convincente. Hillary Clinton, nello scenario politico dagli anni ’80, ha cercato di vendere una storia di cambiamento, ma i paradossi e le contraddizioni che albergano nel suo passato sono stati più potenti nel polarizzare il voto degli americani. D’altro canto Donald Trump è una contraddizione per i suoi stessi compagni di partito, i repubblicani, che lo hanno osteggiato fin dalla sua candidatura mentre adesso lo devono ringraziare per aver riconquistato la presidenza dopo otto anni di Obama.
Fiero sostenitore delle armi, razzista, misogino, negazionista del cambiamento climatico e meno qualificato, il tycoon repubblicano è riuscito a parlare alla pancia dell’elettore medio americano, che in parte lo rappresenta pure, però ciò che ha contato è stata la condizione della classe media, che non beneficia ancora della lieve ripresa economica dalla crisi del 2009. Il suo programma per certi versi protezionista e isolazionista ha attirato questo malumore, e poco importa se quello della Clinton conteneva molte più risposte. L’Ex Segretario di Stato è stata accusata di essere troppo vicina a chi quella crisi economica l’ha provocata, mentre Trump che è un esponente di quel mondo, non godendo di tale appoggio è riuscito a svincolarsi abilmente. I dati presentati questo gennaio da un rapporto Oxfam aiutano a comprendere meglio l’avversione dei cittadini al mondo della finanza. Infatti indicano che il divario tra le diseguaglianze economiche negli ultimi 5 anni è aumentato, durante la crisi l’1% della popolazione mondiale ha continuato ad arricchirsi mentre il restante 99% si è ulteriormente impoverito e questo vale anche per gli USA.
Nella sconfitta della democratica pesano l’identificazione con l’establishment, l’appoggio di Wall Street e lo scandalo delle mail, ma soprattutto l’incapacità di dare voce al cambiamento, promesso da Obama, che non è ancora pervenuto. Perciò è irrilevante se i mercati abbiano scommesso sulla Clinton poiché sembrasse la vincitrice scontata oppure perché fosse disposta realmente a rappresentare i loro interessi. La percezione diffusa tra gli americani, è che lei sia amica delle grandi banche e distante dai problemi di quella classe media di cui ambiva risolvere i problemi. Dunque il risultato non deve stupire più di tanto, la reale sconfitta politica di Hillary risale al 2008, anno in cui ha perso le primarie contro Barack Obama e momento in cui l’America ha archiviato definitivamente la storia dei Clinton. Se ciò non è suonato al Partito Democratico come campanello d’allarme, anche l’andamento delle ultime primarie ha mostrato tutte le sue debolezze come candidata presidente. Uno sconosciuto anziano con idee strambe come Bernie Sanders, che si è definito socialista nel Paese nemico storico di quell’approccio economico, le ha dato una dura battaglia poiché più abile nel sfruttare le preoccupazioni delle minoranze, dei giovani e della classe operaia. Tutti questi accorgimenti avrebbero dovuto far preoccupare i democratici, i quali invece si sono rasserenati con i sondaggi che davano in testa l’ex first lady. Trump invece ha avuto contro la maggior parte dei mass media, dei governi e del suo stesso partito, ma non del suo popolo. Le elezioni si vincono grazie all’appoggio di quest’ultimo, il resto serve solo a prevalere nei sondaggi ed è bene che la politica non lo dimentichi!
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