Movimento di cittadini, non partito politico.
Questo è stato il mantra ripetuto ossessivamente da Grillo fin dalla fondazione del Movimento Cinque Stelle, nuovo soggetto politico estraneo alle logiche dei partiti tradizionali e schierato a tutela dei cittadini, via via sempre più esclusi dai meccanismi tradizionali della politica.
Il Movimento si è quindi contraddistinto, fin dalla sua fondazione, da una marcata attenzione per battaglie civiche trasversali, disinteressandosi di costruire un’identità ideologica ben precisa ed, anzi, arrivando a sostenere con forza il concetto di “Post-Ideologia”.
La questione generazionale, la tutela dell’ambiente e l’importanza sempre crescente del web sono tutti temi, secondo i pentastellati, affrontabili senza una precisa collocazione politica ma dando modo ai cittadini di esprimersi direttamente, in una sorta di democrazia diretta moderna, pardon, “Post-Moderna”.
In realtà fare politica comporta prendere determinate scelte, da sempre.
La democrazia rappresentativa Occidentale si fonda proprio su questo meccanismo comune a tutti gli ordinamenti: si vota, si forma una maggioranza rappresentativa del corpo elettorale uscito maggioritario dalle consultazioni e, a seconda della forma di Governo presente nello Stato, il potere esecutivo prende decisioni nell’interesse del proprio elettorato.
Scegliendo, per l’appunto.
L’idea che un potere esecutivo tuteli maggiormente determinati interessi a scapito di altri è un concetto del tutto naturale nella tradizione politica, seppur oggi si tenda sempre più con un velo di ipocrisia a metterlo in discussione.
L’assenza di una coerente linea politica e, in definitiva, di una guida in grado di soddisfare determinati interessi comporta, come naturale conseguenza, solo caos e proprio questa mancanza è il più grosso limite del Movimento.
Prendiamo l’esempio di Livorno.
Nella città labronica, dopo decenni di (mal)governo di sinistra, è in carica il sindaco pentastellato Filippo Nogarin; la situazione in città è tragica e, oltre a dover combattere con una disoccupazione altissima, la giunta si è ritrovata ad affrontare un buco di bilancio la cui responsabilità politica non è ancora chiara.
La proposta fino ad ora caldeggiata per far quadrare i conti dall’assessore Gianni Lemmetti è di aumentare il contributo addizionale Irpef.
Ma…aumentare a chi?
Ed è su questo punto che l’assenza di contenuti politici si manifesta in tutta la sua intensità.
L’Irpef è un’imposta statale che può essere accompagnata da un contributo addizionale deciso da Enti Locali o dalle Regioni; nel caso di Livorno il Comune aveva da sempre adottato, in coerenza con il principio di Progressività, il criterio degli “Scaglioni di reddito”, per cui in ragione della ricchezza dichiarata il contributo addizionale passava da un minimo dello 0,4% ad un massimale dello 0,8%, non innalzabile in quanto posto come limite dalla stessa Legge Statale.
Il Principio di Progressività, è doveroso ricordare, è una delle più grandi conquiste dello Stato Sociale ed è legato ai Principi di Uguaglianza Sostanziale e Giustizia Sociale.
Ribaltando la prospettiva secondo cui tutti noi dobbiamo pagare le medesime tasse in quanto tutti uguali, dogma liberista espressione dell’Uguaglianza Formale, il Principio di Progressività impone tasse diverse in ragione della ricchezza dichiarata: non tutti siamo uguali perché non tutti abbiamo la stessa ricchezza, ergo chi ha di più deve contribuire di più.
Oggi, proprio nella città storica della sinistra, si intende fare il contrario.
L’assessore Lemmetti ha infatti presentato una proposta tesa ad equiparare l’aliquota addizionale comunale allo 0,8 per tutte le fasce di reddito, ossia: più tasse per le classi sociali disagiate e classe media.
Il paradosso di questa manovra è che l’aliquota massimale per le fasce sociali più alte, lo 0,8%, non può essere in alcun modo modificata, essendo posta come massimale dalla stessa Legge Statale, e ciò preclude ogni ipotesi di aumento fiscale per i cittadini più benestanti.
La proposta, coerente con una visione prettamente liberal-conservatrice, potrebbe acquisire un senso se accompagnata da una serie di misure a favore del settore privato (smobilitazioni di patrimonio pubblico, incentivi a creare impresa e via dicendo) in modo tale da stimolare un’ondata di investimenti da parte degli stessi soggetti più ricchi, estranei alle nuove tasse.
In realtà anche su questo versante il Comune manifesta confusione e contraddizione, opponendosi alla privatizzazione di Porto 2000, quasi vestisse i pani di un’estrema sinistra ostile ai privati.
Insomma, il Comune proprio in questo periodo di Carnevale si traveste un giorno dalla Thatcher e un altro da Che Guevara ignorando, volutamente o meno, che la città attende ancora delle precise risposte e necessita di profonde misure strutturali per combattere la depressione economica presente da almeno trent’anni.
E quella, purtroppo, non è una maschera di Carnevale.
Giulio Profeta
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