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L’(anti)europeismo degli europeisti

 

Lo confesso Vostro Onore: come tanti a sinistra, ero uno di quelli perdutamente innamorato del Sogno Europeo, della prospettiva di uno Super Stato Continentale che potesse ergersi come alternativo tanto agli Stati Uniti, quanto alla Cina.

Nel 2014, nelle mitiche elezioni del 40% del Partito Democratico, avevo come immagine di copertina su Facebook (tutt’ora salvata) la bandiera europea, accompagnata dallo slogan “Il futuro merita più di cinque stelle”.

E poi?

E poi è accaduto che, dopo anni, non solo l’Unione Europea non è minimamente cambiata, ma, anzi, si è incancrenita proprio su quelle posizioni che, nei convulsi momenti successivi alla Crisi dei debiti sovrani del 2011 io e tanti altri volevamo cambiare.

E allora mi sono chiesto: non sono io a trasfigurare l’Unione Europea? Ad immaginare qualcosa che non esiste e, forse, non esisterà mai?

Riavvolgiamo il nastro.

L’Unione Europea nasce come sviluppo delle allora tre Comunità Europee, concepite essenzialmente allo scopo di mettere in comune alcuni settori economici, dapprima quello del carbone e dell’acciaio, per favorire il commercio e generare ricchezza.

Politicamente, inoltre, si pensava che una maggiore integrazione economica avrebbe mitigato successive rivalità fra le Nazioni europee, in particolare tra Francia e Germania, alla base delle due Guerre Mondiali.

Da qui, nacquero i due approcci al sistema Europeo: quello pragmatico-funzionalista, egemone oggi nell’Unione, per cui ogni momento di maggior integrazione deve essere giustificato da un punto di vista economico (funzionalista, pertanto, in quanto in funzione degli obiettivi economici alla base del progetto europeo) e quello paneuropeista, portato avanti dapprima da alcuni intellettuali come Altiero Spinelli, celebre autore del Manifesto di Ventotene, e poi soprattutto dalla sinistra europea.

La prima domanda che dobbiamo porci, scevra da ogni ideologia, è: siamo sicuri che l’approccio pragmatico-funzionalista sia egemone solo da pochi anni?

O, forse, analizzando lo sviluppo delle Comunità Europee non possiamo riscontrare una sua certa linearità?

L’approccio degli intellettuali alla Spinelli è stato, costantemente, un’ambizione di pochi a cui, sistematicamente, il popolo europeo ha sempre rifiutato di aderire, consultazioni alla mano.

Facciamo solo un esempio.

Nel 2004, le Istituzioni e gli Stati Europei promossero un ampio tentativo di integrazione, introducendo una vera e propria “Costituzione” sovranazionale, chiamata “Costituzione per l’Europa”.

La proposta si arenò, in modo irreversibile, a seguito della bocciatura nei referendum in Francia e Olanda.

Certo, direte voi, Francia e Olanda non rappresentano tutti gli abitanti europei, altri Stati ebbero referendum in cui, come la Spagna e Lussemburgo, i favorevoli furono maggioranza.

Peccato che nella maggior parte degli Stati Membri non ci furono veri e propri referendum e la Costituzione per l’Europa passò da un semplice voto parlamentare.

Democrazia rappresentativa, lecita direte voi, sicuramente, ma non per questo presupposto idoneo per definire un progetto europeo come condiviso dai suoi cittadini (l’Assemblea Costituente italiana è stata votata? Ovvio che sì, come avviene sempre, salvo per le Costituzioni imposte agli Stati sconfitti in guerra).

E qui sta il punto.

L’Europa, nel bene e nel male, è il frutto di secoli di guerre, in cui popoli si sono amalgamati lungo tratti culturali specifici e propri.

Ho parlato di lati negativi e positivi perché questa vocazione “autonomistica” degli Stati Europei si è riflessa esternamente in frequenti conflitti, spesso privi di utilità, tra cui due Guerre Mondiali, ma internamente ha comportato, ad esempio, servizi sociali tendenzialmente universali, con destinataria tutta la popolazione in modo indistinto.

Abbiamo, in Italia come in Germania, servizi sanitari pubblici che forniscono cure sul presupposto, specifico, per cui noi europei identifichiamo la solidarietà come un tratto culturale condiviso, proprio perché ci sentiamo “simili”, in un’accezione lata, a chiunque riceva assistenza nelle nostre strutture.

In termini più semplici: siamo disposti a pagare collettivamente, tramite imposte, i nostri servizi perché riteniamo che i loro fruitori (gli altri concittadini) siano meritevoli della nostra solidarietà, in quanto affini culturalmente a noi.

Si parla solo di solidarietà fra cittadini appartenenti al medesimo Stato, ma in altri Paesi non accade neanche così.

Negli Stati Uniti, dove soggetto politico è l’individuo e non il cittadino, la sanità è una prestazione individuale che tu o il tuo datore di lavoro dovete pagare, perché non sei portato a sentirti “simile” al tuo vicino e dove l’elemento unificante del popolo americano è la libertà, anche di essere diverso, culturalmente, dal tuo compagno di casa.

Alla luce di questo, possiamo dire come la solidarietà sia un tratto culturale, detto banalmente, è come l’amore: c’è o non c’è, non si può imporre e la solidarietà fra europei al momento non esiste e non è mai esistita.

Certo, forse esisterà, ma sarà un processo graduale.

Quello a cui abbiamo assistito con la Crisi dei debiti sovrani del 2011 non è stata una “disfunzione” europea, da correggere, ma la semplice azione di un’Unione edificata su obiettivi economici a cui la solidarietà e i diritti sociali, espressione della prima, semplicemente non interessano.

Da questo punto di vista, i no di ieri di Berlino o di Amsterdam ai cosiddetti Corona Bond (titoli garantiti da tutti i Paesi dell’Unione con cui si finanzierebbero i singoli interventi emergenziali assunti dagli Stati) non si pongono in contraddizione con quanto accaduto finora, al contrario, sorprenderebbe ogni decisione diversa rispetto a questa.

I Nove Stati, che hanno formalmente richiesto la creazione di strumenti di solidarietà eccezionali, rappresentano il 56% del Pil dell’Eurozona e il 62% della popolazione, ma sono stati presi a schiaffi in faccia da chi ne produce meno e da chi ha meno abitanti (ma, a sua volta, ha redatto i trattati, è più inserito nei gangli amministrativi delle Istituzioni e gode di maggior autorevolezza finanziaria).

E il rinvio all’Eurogruppo di ogni decisione in merito, estromettendo di ogni decisione la Commissione che, formalmente, rappresenta gli interessi dell’Unione è la riprova, politica e plastica, di questa totale carenza di vocazione solidaristica dell’ordinamento sovranazionale che, ancora una volta, nelle emergenze è guidato dalla logica intergovernativa e, quindi, dai singoli Stati.

E a questa, cinica, a ben vedere, visione, già attuata nel 2011, il popolo europeo non ha voluto, in ben due occasioni, porre alcun freno.

Nel 2014, per l’appunto, e nel 2019 gli elettori hanno fortemente penalizzato il Partito Socialista, principale interprete di un paneuropeismo, e privilegiato o i Cristiano-Popolari, maggiori sostenitori di un approccio economico-funzionalista, o addirittura i Sovranisti, che teorizzano un ampliamento delle competenze Statali, seppur in larga parte favorevoli al mantenimento di una cornice europea.

Quello che, oggi, mi spaventa di più, oltre sicuramente al Corona Virus, non sono tanto le reazioni (piuttosto prevedibili) di chi vuole mantenere l’Unione Europea in questa dimensione, ma la cecità di chi non vede l’attuale quadro politico.

E allora perché la sinistra europea ha sposato in modo così netto il sogno Europeo?

La sinistra vive di sogni, senza una propensione ideale non ci sarebbe sinistra.

Accanto, però, al mondo ideale, è necessaria una prospettiva concreta, come insegna il passaggio del socialismo utopistico al socialismo realista Ottocentesco, che, in soldoni, non è stato altro che il parlare di uguaglianza in piccoli club alto-borghesi a discutere di più diritti nei costituendi circoli operai, dove davvero si percepiva una insopportabile privilegio in capo a pochi (e, ovviamente, non loro).

Ritengo che il crollo del Muro di Berlino prima, e dell’Unione Sovietica poi, abbia fortemente impattato sulle prospettive della sinistra europea, ritrovatasi priva di riferimenti concreti e di argomenti politici da spendere nei confronti dell’elettorato.

Si è cercato, quindi, di sostituire il sol dell’avvenire con il sogno europeo, sulla scia culturale dell’internazionalismo socialista di Novecentesca memoria.

Questo è stato uno dei motivi per cui la sinistra ha subito, molto più della destra, di recente gli effetti negativi politici della crisi, quando proprio le regole europee hanno imposto tagli ai bilanci Statali, ma questo è un altro discorso.

Semplicemente, per non rendere tutto un’insopportabile retorica: che fare?

Serve, e qui sono io a crederci ciecamente, maggiore solidarietà, per evitare scivolamenti verso forme totalitarie che già noi europei, in passato, abbiamo partorito.

Cosa potrebbe cambiare?

Portare il conflitto, ovviamente politico, dentro le Istituzioni Europee.

L’Italia, con la Spagna e la Francia, dovrebbe essere la capofila di un durissimo braccio di ferro con i Paesi del Nord, rivendicando il loro peso maggiore in termini di PIL e la loro maggiore rappresentatività democratica allo scopo di imporre, vista la sua assenza, la solidarietà forzatamente.

Ma, paradossalmente, anche questa soluzione presterebbe il fianco ad una critica: solito approccio intergovernativo, non legato ai circuiti (latamente) democratici delle istituzioni dell’Unione e rischio di rigetto dalla popolazione europea.

In ogni caso, di un Super Stato Europeo alcuna traccia (ancora?) all’orizzonte e continuare a invocarlo equivale ad un miraggio nel deserto.

 

Giulio Profeta

profeta.giulio@gmail.com

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