Potrebbe sembrare un azzardo spericolato, degno dei peggiori meccanismi di speculazione finanziaria, invece c’è chi, in termini di economia reale, si predispone seriamente ad immunizzarsi dal fallimento dell’economia Usa. In questi giorni di paventato pericolo di “contagio” dall’Italia, a voce della Commissione europea, sembra nessuno s’accorga che c’è chi, nel vecchio continente, teme d’essere contagiato da un default statunitense: si tratta della Germania. E’ notizia fresca di poche settimane, infatti, che lo Stato guidato dalla cancelliera Angela Merkel, abbia predisposto un piano di rientro di riserve auree attualmente stanziate in Usa. La Bundesbank prevede, entro il 2020, di rimpatriare una massa complessiva di 700 tonnellate d’oro dagli attuali depositi in America e Francia, con un calo segnatamente importante percentuale di 8 punti, dal 45 al 37%, del totale la quantità di oro tedesco depositata a New York. La Germania punta quindi, entro il 2020, a rimpatriare circa il 50% delle proprie riserve auree complessive in territorio patrio.
La ragione di questa scelta è di facile intuizione: i tedeschi temono il rischio concreto di un fallimento dell’economia statunitense, con una conseguente corsa all’oro che li taglierebbe fuori e renderebbe più difficile il recupero di significative quantità auree. A quanto pare, l’aver evitato, nello scorso dicembre, il baratro del fiscal cliff,il baratro fiscale che sarebbe scattato automaticamente, con lo sfondamento del limite posto nella costituzione americana alla montagna del debito pubblico Usa (oramai abbondantemente sopra i 18 mila miliardi), non sembra aver convinto più di tanto altre economie dinamiche, come la Germania, caratterizzatesi per una cera diffidenza nei confronti delle capacità di quadratura dei bilanci altrui. D’altra parte è difficile sostenere che la diffidenza tedesca non abbia un certo fondamento: sebbene con un accordo in zona Cesarini tra repubblicani e democratici si sia evitato un salasso di dimensioni macroeconomiche, il problema del debito americano aleggia inquietante in tutta la sua corposissima mole, costringendo il keynesiano Obama a firmare, ai primi del marzo scorso, tagli alla spesa pubblica per un valore di 85 miliardi di dollari, con una legge nota come “sequester”. Per di più, a questa “tranche” di tagli, limitata nel tempo fino al prossimo settembre, qualora non si registrasse un accordo più soddisfacente tra le due fazioni presenti nel Parlamento americano, seguirebbero ulteriori tagli della dimensione di 1200 miliardi nell’arco dei prossimi 10 anni, una sorta di fiscal compact in salsa americana.
Sono almeno tre i tratti significativi di questa vicenda: in primo luogo, salta agli occhi come la grande informazione, ed anche tanta parte dei centri di controllo e determinazione dei trends economici mondiali, si pongano in un ordine di ragionamento probabilmente inadeguato per la più stretta contingenza: se infatti, il dibattito europea risulta avvinghiato attorno alle prospettive dell’euro, per molti già tracciate verso l’estinzione, l’economia reale è occupata in ben altre operazioni e su ben altre direttrici strategiche. Si evidenzia quindi un pericoloso ritardo delle analisi rispetto ai fatti.
Il secondo parametro che questa notizia deve fare sussumere ad un’opinione pubblica che voglia effettivamente comprendere e tentare di prevedere l’andamento futuro sia delle scelte economiche che politiche più importanti è quello del ritorno degli egoismi degli stati, complice una crisi economica ciclica e per molti versi epocale, che palesa le falle della costruzione europea, siano esse di natura meramente economica (l’Europa a più velocità, una Bce più simile ad una banca privata che ad una pubblica, l’assenza di sistemi di immunizzazione dalla speculazione, tanto per citarne alcune) che di carattere culturale e politico (in primis l’assenza di un’interazione culturale tra i popoli, nell’ottica di una virtuosa coesistenza di una patria come riferimento e del cosmopolitismo come atteggiamento). Una simile chiusura a riccio delle economie nazionali, da un lato, non può che essere la naturale conseguenza di un impostazione d’austerity intrapresa e propugnata dall’UE in concordia con il Fondo Monetario Internazionale, dall’altro si caratterizza essa stessa come un’arma simultaneamente difensiva e offensiva rispetto ad organismi sempre più burocratici, freddi calcolatori e sempre meno capaci di discostarsi da un credo economico che rivela ogni giorno che passa le sue inadeguatezze.
Il terzo ed ultimo punto, ma non per importanza, riguarda la specificità del caso americano. L’approccio obamiano alla crisi si è distinto per il suo spiccato accento keynesiano, cioè un forte investimento pubblico in economia, particolarmente spinto nel manifatturiero e nel settore dei sevizi, coadiuvato da una Federal Reserve da molti anni impegnata in un’ opera di difesa dei titoli di Stato americani da mire speculative (al prezzo però del sorgere di un problema crescente di eccesso di liquidità nel sistema, che pone all’ordine del giorno la ricerca di una differente strategia di sterilizzazione monetaria). Ciò che però deve suscitare riflessione e dibattito è il limite che questo approccio possiede intrinsecamente: da un lato il problema del debito pubblico che la stessa Costituzione, carta fondamentale dell’ordinamento Usa, prende in considerazione ponendo un tetto massimo all’accumulazione dello stesso, in palese contraddizione con quanto affermato da Lord Keynes, il quale sosteneva l’abbandono del rigorismo e della “ragioneria di bilancio” in tempi di contrazione e recessione dell’economia, sostenendo, di contro, un accumulazione di debito. Sarebbe interessante tuttavia ragionare su quanta parte del debito pubblico americano derivi da socializzazione delle perdite delle grandi banche statunitensi, sul punto di fallire negli anni di esplosione della crisi finanziaria. Sicuramente si tratta di cifre ingentissime, se ci si attiene alle stime della Bank of England che valuta i flussi di risorse pubbliche dai forzieri degli Stati a quelli delle banche, a livello mondiale, attorno alla cifra di 14 mila miliardi, nel solo 2009.
In ultima e sintetica analisi, si deve considerare una delle sconfitte più importanti dell’amministrazione Obama: l’incapacità di sottrarre l’economia reale dal giogo di quella finanziaria, giunta ad avere un peso corrispondente al 350% del PIL mondiale. Diverse speranze erano state coltivate con l’impegno, ad esempio, della senatrice Warren in contrasto alla finanziarizzazione dell’economia e dei pericoli, fin troppo noti, che essa comporta e dei disastri che può provocare (anch’essi accompagnano le cronache quotidiane), ma le attese non sono state, ad oggi, soddisfatte.
C’è da credere che il mix fra austerity, mancato contrasto alla finanziarizzazione ed egoismo degli stati più potenti possa divenire da qui a poco esplosivo a meno che non si verifichi una, tanto significativa quanto inedita, sterzata nell’approccio alla drammaticità della crisi.
Francesco Valerio della Croce