Un mese fa Livorno si svegliava incredula, ferita e sconvolta.
Due temporali di eccezionale intensità, un evento atmosferico con tempi di ritorno di 500 anni, un’alluvione che ha portato via tutto: automobili, argini, case, attività commerciali, ma soprattutto
8 vite, protagoniste della tragedia più grande dal dopoguerra per la città, Moby Prince a parte.
Mentre mezza Livorno dormiva, l’altra metà lottava contro l’acqua e il fango, trovandosi ad affrontare una situazione mai considerata dai propri cittadini: si perché mentre Pisa, Firenze o Genova sono abituate a far fronte ciclicamente alle alluvioni, Livorno si è sempre preoccupata più del vento che della pioggia, lo sguardo dei cittadini è proteso ad ovest, verso il mare ed è da lì che sono arrivati i temporali del 10 settembre. Ma il pericolo in realtà veniva da est e da sud, da quelle colline colpite in pieno da 250 mm d’acqua in una tempesta di fulmini, da quei ruscelli che diventavano fiumi travolgendo tutto quello che trovavano, rendendo inutili gli interventi di contenimento fatti dall’uomo.
Nelle ore e nei giorni immediatamente successivi all’alluvione, i quartieri di Salviano, Montenero, Collinaia, Quercianella, Stagno, La Rosa e Ardenza hanno ospitato migliaia di volontari, perlopiù giovani studenti o disoccupati, considerati sempre più un peso, volontari che hanno voluto invece gridare forte che loro ci sono, che fanno parte della società, che possono essere utili, che certe cose vengono prima di tutto, che esiste una comunità.
Spesso parole come società, comunità, solidarietà, sono usate in modo astratto, perdono il loro vero significato immersi in concetti troppo complicati, troppo alti, e sembrano lontane dalla realtà: l’alluvione ci ha riportato tutti coi piedi per terra, ci ha mostrato in maniera pura e cristallina cosa sia una comunità, gente che aiuta il vicino come uno sconosciuto a svuotare la casa dal fango, ragazzi armati di pala e generosità che rispondono ad un istinto primordiale, la difesa della collettività.
Si perché in realtà l’alluvione ce la siamo sentita un po’ tutti dentro: vedere Livorno alla ribalta dei media nazionali per una tragedia di queste dimensioni ci ha sconvolto, abituati a stare dall’altra parte dello schermo, magari anche annoiati dalle continue notizie di terremoti, alluvioni, frane…
Quando però è la tua città ad essere colpita, quando vedi che l’attenzione dei media dura un giorno, al massimo due, allora capisci cosa significa sentirsi soli con i propri concittadini, sempre immersi nel fango, nella mota, ed immediatamente si tocca con mano un altro concetto astratto, inflazionato nella discussione politica attuale: il concetto di appartenenza.
Cadono tutte le barriere ed i pregiudizi, quando vedi giovani, vecchi, bianchi, neri, portuali e militari che insieme collaborano per la collettività, immediatamente sono tutti livornesi, una sorta di ius soli in senso stretto, nel senso che con le mani immerse nel suolo per aiutare il prossimo si dimostra in un attimo tutta la cultura necessaria per far parte di questa comunità.
L’Italia sta andando incontro alla sua fetta di cambiamenti climatici, che si traducono in eventi sempre più estremi, sempre più localizzati e sempre più frequenti. Non c’è da stupirsi se i famosi tempi di ritorno di 500 anni si possano ridurre a 50, purtroppo.
Allora, forse, gli strumenti tradizionali non bastano più: quando si progettano interventi per la difesa del territorio non è più corretto basarsi sui dati del passato, o quantomeno non è più sufficiente.
Così come il sistema di allarme, il famoso codice arancione, emanato dalla regione sotto indicazione del Lamma a più di un giorno di distanza dal possibile evento, suona ormai silenziato dall’abitudine. Spesso infatti sotto codice arancione non cade neanche una goccia d’acqua, così come è successo una settimana dopo l’alluvione, quando il livello di scaricabarile delle varie istituzioni ha toccato l’apice.
Al lupo al lupo, per capirsi.
L’inevitabile processo alle istituzioni è partito doverosamente dopo i funerali delle vittime. A prescindere dal corso ordinario della giustizia, in città sono già tutti sul banco degli imputati, dai piani regolatori delle vecchie giunte alla gestione incerta dell’emergenza da parte di Nogarin, toccando il comando della protezione civile.
Responsabilità a parte, la riflessione politica deve considerare anche un aspetto più generale: la rete non può sostituire la comunità. E questo devono tenerlo presente i 5 stelle in primo luogo, ma anche gli altri partiti, sempre più proiettati verso la discussione virtuale, piuttosto che sul presidio dei territori.
L’attività di coordinamento della massa di volontari è stata presa in carico da soggetti esterni alle istituzioni, legati al territorio, come le Brigate di Solidarietà Attiva, i ragazzi della curva nord, il circolo Arci di Salviano, l’SVS, la croce rossa ed il mondo cattolico, Misericordia e Caritas: la mancanza di un coordinamento governativo (comunale, regionale o statale) dei volontari ha palesato il deleterio allontanamento dai quartieri.
Come sempre, bisogna ripartire, andare avanti, facendo frutto dei pochi insegnamenti che ci può dare un evento catastrofico: ripartire dalla comunità, dall’appartenenza, dai quartieri, consapevoli che quest’alluvione ci lascerà una cicatrice indelebile.