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La Turchia al voto

Domenica 7 giugno si svolgeranno le elezioni parlamentari in Turchia. Se sembrano non esserci dubbi sul fatto che l’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo) si confermerà il partito più votato, ciò potrebbe non bastare per soddisfare le ambizioni del presidente Erdogan. Questi, infatti, cercherà di ottenere abbastanza voti da occupare 330 seggi in Parlamento. Ciò gli consentirebbe di avere una maggioranza sufficiente per poter modificare la Costituzione e trasformare l’attuale Repubblica Parlamentare in una Repubblica (Super)Presidenziale, accentrando così tutti i poteri nelle sue mani.

“Nessuno sa quali saranno i prossimi colpi di scena, se saranno sopra o sotto la cintura” scrive l’analista Murat Yetkin, “il clima si è fatto pesante”. Erdogan, al potere dal 2002, durante il 562° anniversario della conquista di Costantinopoli (oggi Istanbul) da parte degli Ottomani, è tornato a parlare addirittura di “Liberazione di Gerusalemme”, nell’ottica di risvegliare istinti nazionalisti ed islamisti. “Conquista vuol dire issare di nuovo la bandiera islamica su Gerusalemme, significa raccogliere l’eredità di Maometto e spingere la Turchia a rialzarsi” ha gridato un Presidente pronto a tutto per vincere le elezioni. Questa a cui stiamo assistendo è la deriva autoritaria dell’unica nazione democratica islamica del Medio Oriente, l’unica che era riuscita a far convivere il modello della Liberal-Democrazia occidentale con la religione islamica. 

Secondo il 43% della popolazione queste elezioni “non saranno oneste” e l’opposizione denuncia gli intenti dell’AKP, che potrebbe organizzare squadre speciali, di diverse centinaia di persone, incaricate di mettere in atto frodi elettorali. Per tutta risposta, il budget della polizia sarebbe lievitato del 700%, toccando i 212 milioni di euro, per acquistare nuovi equipaggiamenti anti-sommossa. Con ciò il governo, in previsione di manifestazioni come quelle che infiammarono Gezi Park a Istanbul nel 2013, vuole ostentare la sua forza e dimostrare che, in caso di scontri, non si farà trovare impreparato.

Erdogan è alla guida di una nazione fragile. La Turchia che cresceva ai ritmi della Cina, ha lasciato il posto ad un paese in profonda crisi, con il Califfato alle porte e il PKK che preme come non mai per conquistare l’indipendenza del Kuridistan. Una fragilità visibile anche nel calo di consensi nei confronti del partito di governo. Gli ultimi sondaggi indipendenti indicano un AKP in forte calo, al 40% contro il 52% ottenuto alle presidenziali dello scorso anno ed una diffusa crescita dell’opposizione, ultima speranza del paese. Infatti per rovesciare i piani del presidente, sarà decisivo il ruolo l‘Hdp, il partito filo-curdo. Se quest’ultimo riuscisse a superare la soglia di sbarramento del 10%, per entrare in Parlamento, potrebbe davvero complicare la vita all’establishment turco.

Attenderemo con interesse l’esito delle consultazioni in Turchia, poiché il risultato potrebbe non essere scontato e perché ciò che accade ad Ankara ha conseguenze su tutto lo scacchiere regionale. La recente politica estera turca è stata ambigua ed ha provocato l’allontanamento della nazione dagli obiettivi dei suoi alleati occidentali. Si è rivelata, ad esempio, più decisa ad alimentare l’opposizione nei confronti di Bashar Al-Assad (sciita alawita), che a combattere Daesh (sunnita), nella guerra civile siriana. Ciò in assoluta controtendenza rispetto all’indirizzo politico intrapreso dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Erdogan quindi, se venisse legittimato da una vasta maggioranza parlamentare, potrebbe diventare un pericolo concreto per la Turchia e per tutto il Medio Oriente. Il Presidente, ormai fuori dall’orbita americana ed impegnato solo a reprimere l’opposizione interna, non ha una soluzione ai reali problemi del paese.

Al contrario, se i turchi avranno il coraggio, nonostante i brogli e la paura, di delegittimare il Presidente, potranno sperare di far tornare la loro nazione ad essere un faro di democrazia per tutto il mondo islamico.

Lamberto Frontera

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