Dopo la tempesta qualcuno si aspetterebbe la quiete, ma la tranquillità non è di certo la protagonista di questo inquieto incubo teatrale. La Compagnia della Fortezza che da venticinque anni lavora con i detenuti del carcere di Volterra con la regia e drammaturgia di Armando Punzo ha realizzato un incubo, perché ha il linguaggio dei sogni ma l’emozione è delirante. Pochissimi i dialoghi fra i personaggi e, comunque, anche nei botta e risposta rimane sempre il dubbio che si stia recitando un monologo a se stessi.
La comunicazione verbale con il pubblico non c’è, la platea è invasa da figure ieratiche in lento movimento ma le simbologie e le motivazioni dietro l’incedere sono troppo oscure per essere comprese. Una metafora mangia l’altra, in un palco dove molte opere di Shakespeare si incontrano, dove alcuni personaggi possono essere facilmente individuabili da un oggetto ( il fazzoletto, una maschera) che ci terrorizza come un correlativo oggettivo o una metafora vuota. Le gorgiere sono a forma di libro e un libro viene strappato nell’ultima, magnifica e statuaria scena. D’altronde i libri che amiamo sono un ducato troppo vasto, e se la meraviglia, la tempesta, finisce, forse finisce persino il teatro. Tutti i personaggi costantemente in scena, azioni ripetute che ricordano un teatro dell’assurdo. Ripercorrendo tutto il non-finito di Shakespeare, il bardo viene dilaniato per apparire come unicum.
“Di Shakespeare non mi interessa il soggetto ma la sua ombra”, afferma il regista. “Tradire la forma che Shakespeare ci ha consegnato è l’unica possibilità che ci è data”.
Dopo la tempesta non ci sono certezze, e dopo tutte le rivisitazioni dell’opera shakespeariana in effetti l’unica cosa che era rimasta da fare era questa: negarlo.
Alice Rugai
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