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La sedia davanti alla finestra

La Sedia davanti alla finestra

Marco Bonavia

Simone Mariotti aveva sedici anni quando volò giù dalla finestra del terzo piano del suo appartamento. L’altezza non era eccessiva, ma atterrò di testa e morì conseguentemente alle ferite riportate senza mai riprendere conoscenza.
Giacomo Mariotti allora aveva quarantasei anni ed era suo padre.
In dieci anni continuò a vivere nella stessa casa assieme alla moglie, una figlia divenuta diciassettenne e il fantasma del ricordo del figlio.
Non lo ha mai lasciato andare via.
Non ha mai trascurato il lavoro o la famiglia, ma non ha mai smesso di pensare al figlio.
Continuò a mangiare in quella sala da pranzo, guardando fuori dalla finestra dalla quale il figlio si era buttato. Perché era questo il motivo per cui non poteva andare avanti: i periti decretarono che si fosse trattato di suicidio. E Giacomo Mariotti non avrebbe mai ammesso che fosse vero, che fosse andata veramente così.
La prova più consistente – vista l’assenza di un biglietto di addio o una lettera – fu una sedia lasciata accanto alla finestra: Simone c’era salito sopra per buttarsi.
Allora gli psicologi e gli psichiatri si misero a indagare sulla vita di Simone per scoprire il movente o i moventi. Trovarono una normale vita di un adolescente che – a detta di molti conoscenti – aveva, però, sempre un sorriso un po’ triste. Trovarono qualche delusione amorosa, ma niente tale da giustificare l’accaduto; a scuola andava abbastanza bene e aveva numerosi amici, anche se non si riuscì a identificare con chiarezza un migliore amico.
Sicché le motivazioni del gesto dovevano risiedere o nella mente malata del giovane – ma non vi era mai stata nessuna indicazione in questo senso – o nella famiglia del ragazzo.
Gli psicologi interrogarono la famiglia, prima in gruppo – le donne piangevano, mentre il padre negava che il figlio si fosse suicidato – poi singolarmente. La signora Mariotti raccontò di come Simone fosse un bravo ragazzo, la aiutava a casa, andava bene a scuola e andava d’accordo con tutti. Tutto ciò fra abbondanti lacrime. Marianna, la sorellina, che allora aveva solo 7 anni, piangeva disperata. I dottori cercarono di coglierla in fallo approfittando della sua innocenza e genuinità e dell’assenza dell’influenza genitoriale. Però non rivelò niente di veramente significativo, prevalentemente non capiva nemmeno la situazione.
Infine il padre continuava a negare categoricamente che il figlio si fosse buttato. “Era felice e amato – ripeteva – Noi lo amavamo, io lo amavo, aveva una bella vita”
“E allora come spiega quel che è accaduto?”
“Deve essere stato un incidente”
“Casualmente proprio mentre in casa non c’era nessuno?”
“Già”
“Va bene, e allora come la spiega la sedia davanti alla finestra?”.
Quello era l’ultimo ostacolo, muro invalicabile contro il quale si schiantavano tutte le altre ricostruzioni.
Eppure non bastava a convincere il signor Giacomo: “Volevo bene a mio figlio. Facevo in modo che lo sapesse”.
I dottori non risposero.

Erano passati dieci anni. Il comportamento di Giacomo fu ammirevole: si sobbarcò il carico della famiglia e la trascinò avanti, anche quando quella sembrava ormai perdutamente affondata in quella melma di pregiudizi, convenevoli, funerale e trigesimo e anniversari, persone che li indicavano per strada o come colpevoli o negligenti o sventurati.
La madre e la sorella si ripresero: non ebbero più nessuna reazione eccessiva. Non si dimenticarono di Simone, ma riuscirono ad andare avanti, frapponendo fra un suo ricordo e un altro intervalli di vita sempre più ampi e più belli. Il padre invece no.
Anche se non lo dava a vedere, viveva costantemente con il fantasma del figlio suicida sulle spalle. Dentro pulsava forte in lui la convinzione che Simone non l’avrebbe mai fatto. Non riusciva ad accettare quello che gli altri insinuavano così facilmente, che Simone non si sentisse amato, ma solo, abbandonato e infelice.
Conosceva suo figlio, nessun dottore lo avrebbe convinto del contrario, poteva avercene anche otto di lauree.
Questa sua lotta personale e segreta, intrapresa subito, continuò con pari forza nel tempo. Quando fu stilato il referto con su scritto “suicidio”, Giacomo tanto fece e tanto disse che alla fine la scritta mutò in “probabile suicidio” – di più non poteva ottenere. Infatti tornava sempre il problema di quella maledetta sedia e del perché stesse lì.
Giacomo soffriva terribilmente, ma aveva capito che la famiglia aveva bisogno di solidità, di contare uno sugli altri, ora più che mai.
Così per i seguenti dieci anni nascose alle donne della sua famiglia che ogni secondo di ogni giorno era concentrato su un unico pensiero: Simone non si era ucciso.
Angela e Marianna non sapevano che da dieci anni, quando loro due uscivano, Giacomo girava per casa con le luci spente, notte o giorno che fosse: non voleva vedere. Il lampadario, la porta della camera di Simone, la sedia su cui sedeva a tavola, gli sembravano tutti possedere occhi accusatori e labbra spalancate a dire “Ma come fa a farsi vedere in giro?” “Spero bene che si vergogni” “Chissà cosa ha fatto per far suicidare suo figlio?”.
Lui teneva la luce spenta perché aveva paura che un giorno si sarebbe messo a urlare di rimando che la sua famiglia aveva sempre amato Simone, continuava a farlo, che il suo bambino lo sapeva, che loro non dovevano nemmeno permettersi il lusso di nominarlo.
Giacomo dopo dieci anni soffriva come il primo giorno, anche se ormai era diventato abilissimo nel nasconderlo: non aveva mai pianto nemmeno quando andavano a trovarlo al cimitero e la moglie e la figlia piangevano in silenzio.
Non aveva mai pianto da quando Simone si era suicidato. Perché Simone non si era suicidato, e lui lo sapeva. Ci doveva essere una spiegazione, soprattutto per quella dannata sedia.

La loro vita ormai scorreva regolare e tranquilla: i genitori lavoravano e la figlia andava a scuola, mangiavano assieme – per quanto potevano, in accordo con i rispettivi impegni – e andavano in vacanza insieme.
Un giorno stavano preparandosi a lasciare la casa per partire e passare dieci giorni in un agriturismo.
“Papà? – chiamò Marianna – Mi vieni a dare una mano a chiudere la serranda qui in sala, per favore? È incastrata”.
Il padre venne e la esaminò: “Quante volte vi devo dire di non alzare la serranda completamente? Se lo fate, si incastra. Aspetta che la sblocco”.
Andò al tavolino, prese una sedia, ci salì, disincagliò la serranda con le mani, ridiscese e tirò giù la serranda.
Si lasciò cadere sulla sedia davanti alla finestra e scoppiò a piangere. E in quel pianto c’era tutto, anni di repressione, frustrazione, paura tenuta faticosamente a bada, stanchezza, ma anche, finalmente, comprensione, sollievo, un po’ di felicità e tanto amore che non era stato offerto invano.

  Marco Bonavia, classe 1992, nasce a Viterbo. Studia lettere antiche all’università di Pisa. Ama i libri e il rugby, che però non ricambiano e gli hanno chiesto di rimanere amici. Attualmente gioca nel Rugby Livorno 1931, dopo essere cresciuto nell’Union Rugby Viterbo.

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