Nel secondo ciclo di incontri organizzati dalla Fondazione Jonas Livorno e Costa Apuana, un centro di clinica psicanalitica per i nuovi sintomi del disagio contemporaneo, il tema conduttore a partire dal quale i filosofi e studiosi che vengono invitati articolano i loro interventi è quello della libertà. Concetto questo che, oltre ad aver caratterizzato la storia del pensiero, appare oggi di primaria importanza sia per le sue implicazioni politiche, sociali e culturali, sia per le forti contraddizioni che essa determina. Nell’ultimo incontro che si è svolto, il filosofo Umberto Curi, professore ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Padova e autore di numerosi saggi, ha posto al centro delle sue riflessioni il problema di come nel mondo in cui viviamo, condizionato oggi più che mai da imponenti disuguaglianze, si debba rivedere e ripensare al concetto di libertà: non solo intesa in termini di libertà politiche, costituzionali, economiche, ma un tipo di libertà morale che consenta all’individuo di non avere timore del prossimo e di non sentirsi diverso, o meglio, inferiore rispetto all’altro, rinunciando quindi alla propria identità. Condizioni, queste ultime, che stanno venendo sempre meno a causa di una sempre più incombente instabilità e incertezza a cui deve far fronte l’uomo.
Con un Curi questa volta insolitamente più attento a dati, numeri, statistiche che ha ricavato nel corso degli anni, e che riporta, argomentandole con la solita lucidità, nel suo ultimo libro pubblicato da Castelvecchi, “I figli di Ares“, ci si rende conto in maniera più diretta e caustica degli squilibri, delle iniquità e delle ingiustizie che affliggono il mondo. A titolo di esempio basta citare che a un quinto della popolazione mondiale sono riservati i 4/5 delle risorse economiche, monetarie, energetiche e alimentari; oppure che ogni anno muoiono 11 milioni di bambini per denutrizione; o che il patrimonio di uno degli uomini più ricchi al mondo, Bill Gates, equivalga a tutti i patrimoni messi insieme dei 90 milioni di uomini più poveri degli Stati Uniti. Sono questi dei numeri effettivamente impressionanti che testimoniano come non possa essere pacifico questo mondo e come sia inevitabile la presenza di conflitti, che spesso degenerano in atti di terrorismo, che soprattutto negli ultimi anni stanno scuotendo l’Occidente. Fenomeno del terrorismo che, insieme a quello dell’immigrazione e quello della povertà, rappresentano, secondo il filosofo veneto, tre aspetti della stessa tragedia. Il terrorismo infatti è la “risposta” al processo di trasformazione nella morfologia della guerra: la tecnologizzazione della guerra ha contribuito a formare delle asimmetrie tra i (pochi) potenti che detengono mezzi di combattimento superiori e tra i meno potenti, quelli dotati di mezzi inferiori; è per questo che, con mezzi tecnologicamente inferiori ma comunque efficaci (kamikaze), si cerca di ristabilire, almeno parzialmente, e se vogliamo utopisticamente, la simmetria infranta. In questa forma postmoderna della guerra, mentre nelle file degli eserciti occidentali si è ormai imposta la priorità di preservare la vita dei propri soldati, evitando di esporli al combattimento sul terreno, il terrorista, non solo accetta il rischio, ma fa della propria vita un’arma micidiale. Sintomo questo del fatto che la guerra è sempre più faccenda riservata a “civili”, e non a soldati: basti pensare che nella prima Guerra Mondiale il numero dei caduti civili era assai più grande dei civili che erano morti nelle guerre dei secoli precedenti; numero che è aumentato sempre più nella Seconda Guerra mondiale e nelle guerre successive, come la seconda Guerra del Golfo.
Ma come è possibile eliminare gli squilibri economici (la causa principale di guerre, terrorismo e esodi biblici) tra le diverse aree del pianeta? La lotta contro la povertà non è solo un imperativo “umanitario” ma è il modo più efficace per disinnescare il potenziale distruttivo alimentato dalla disperazione. Ma come fare per porre rimedio a questa situazione e adoperarsi affinchè il mondo sia più “giusto”? Sembrano domande senza via d’uscita, senza una risposta definita e risolutiva. Nonostante ciò è lo stesso Umberto Curi che tenta di rispondere a queste domande, proponendo dei possibili esempi o modi per contrastare questo agghiacciante scenario. Sono tre le “proposte di pace” che elenca: la prima rimanda direttamente ad uno dei pochi testi filosofici che siano stati scritti in Occidente sulla pace, ovvero il kantiano “Per la pace perpetua“. In una letteratura occidentale intrisa di guerra, questo è uno dei rari esempi su come edificare la pace e porre fine ai conflitti non appellandosi all’etica del diventare più buoni, ma costruendo razionalmente un ordinamento giuridico. La seconda proposta ci riporta al carteggio tra Einstein e Freud, che fu poi pubblicato nel 1933 con il titolo “Perché la guerra?”. Il dibattito tra i due, promosso dall’Istituto Internazionale per la cooperazione intellettuale, per conto della Società delle Nazioni, ci offre lo spunto per capire il motivo per cui l’uomo faccia la guerra, scandagliando la natura violenta e aggressiva dell’individuo, e individuare le condizioni che permettano di evitare conflitti armati, come sviluppare un Eros che rafforzi i legami affettivi nella comunità e favorisca l’instaurazione di sentimenti comuni a tutti: un impulso che effettivamente oggi manca. La terza e ultima proposta si riferisce a un episodio, quello di papa Giovanni Paolo II che, in occasione della giornata di digiuno per la causa della pace, rivolse appelli a Baghdad e al presidente americano Bush per scongiurare la guerra in Iraq. Guerra che di lì a pochissimi giorni sarebbe iniziata. Un tentativo quindi di accostare il digiuno alla pace: se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Deve rinunciare a una parte del proprio benessere per favorire una diversa distribuzione non solo del benessere stesso, delle ricchezze, ma anche della giustizia, della libertà, intervenendo così sui mali del mondo come la guerra, il terrorismo, l’immigrazione e la povertà.
Sono certo delle ipotesi interessanti e legittime, ma non certo di facile attuabilità. Lo scenario in cui sta versando oggi il mondo non sembra destinato a mutare; le catene della miseria in cui versano centinaia di migliaia di persone sembrano insolubili. Per cui risulta arduo ristabilire simmetrie e uguaglianze laddove fenomeni come guerre, esodi e povertà pare che si rigenerino continuamente, aumentandone la portata e dando vita a processi infiniti e senza apparente via d’uscita. Non sarebbe certo, puntualizza Curi, l’erezione di muri e barriere e la chiusura dei confini ad arginare o addirittura risolvere il problema dell’immigrazione: esso continua ad esistere e riprodursi fin quando ci saranno popoli vessati dalla miseria e dalla rinuncia della loro libertà, della loro identità. Occorre allora non solo la consapevolezza del singolo cittadino, diventato ormai parte integrante della macchina del consumo illimitato, ma una riorganizzazione di tutto il pianeta, che redistribuisca risorse e appiani squilibri e contraddizioni. Una pace così concepita si identificherebbe con il più poderoso sforzo di trasformazione che la Storia abbia mai conosciuto.