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La mostra del Cinema di Venezia

Gli anni passano e i fasti non sono più quelli di una volta ma la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, condotta dal collaudato duo Baratta-Barbera, conserva sempre un fascino particolare. Quello dei divi e delle dive che scendono dai motoscafi, facendo la fortuna, con minimi gesti, di schiere di giornalisti e di riviste di gossip;  di attori e registi che sfilano sul red carpet in poste studiate, prestandosi falsamente imbarazzati ai flash dei fotografi; di una città unica nel suo genere che, da settantadue anni, ospita uno degli appuntamenti più attesi della stagione cinematografica.

Avere la possibilità di assistere dal vivo alle proiezioni non è solo una fortuna ma anche un privilegio. Non ho avuto occasione, per motivi logistici e temporali, di presenziare a tutte, ma mi è stato ugualmente concesso di ripetere un’esperienza capace di arricchire intellettualmente come poche altre.

 

Più che recensioni, riporto impressioni, giudizi maturati soltanto dopo lunghe meditazioni sugli autentici e più profondi messaggi e significati dei film che ho potuto vedere.

 

Spotlight 7,5: Thomas McCarthy dirige un ottimo cast, su tutti Stanley Tucci e Mark Ruffalo, entrambi presenti in sala, in un film che affronta un tema tutt’altro che semplice come la pedofilia all’interno della Chiesa senza cliché e banalità, limitandosi a rappresentare i fatti con un ritmo appassionante. Sarebbe stato fin troppo semplice abbandonarsi ad uno scontato anticlericalismo, ma il risultato finale è indubbiamente di alto livello.

 

Francofonia  5,5: A tradire Aleksandr Sokurov è, probabilmente, il suo evidente e sconfinato amore per il Louvre. Il ruolo di protagonista, infatti, viene ricoperto proprio dal museo parigino, con interminabili inquadrature delle opere ivi esposte accompagnate dalla voce del narratore, impersonato dal regista stesso. Potrebbe essere un ottimo documentario, non fosse per il fatto che il maestro russo, vincitore nell’edizione 2011 con Faust, abbia deciso di inserire al suo interno anche una trama (la collaborazione tra ufficiali nazisti e dirigenti del Louvre per salvarne le opere d’arte), la quale, oltre ad essere scarsamente rilevante, viene spezzettata e intervallata da lunghissime digressioni storico-artistiche. Il tutto accompagnato da difficilmente comprensibili inquadrature del regista nel presente, intento a parlare via Skype con il capitano di una nave da carico, e da una non nascosta simpatia per il regime comunista sovietico.

Black Mass  6,5: L’ispirazione del film nasce chiaramente da grandi classici del genere come Scarface, Quei bravi ragazzi e Donnie Brasco, quest’ultimo interpretato dallo stesso Johnny Depp, qui nei panni del gangster di origini irlandesi “Whitey Bulger”. Al di là dell’interpretazione di Depp, indubbiamente di buon livello, il film risulta godibile dall’inizio alla fine, nonostante un impianto e una sceneggiatura non dei più originali. Oltre al protagonista, da menzionare un ottimo Peter Sarsgaard.

L’attesa 5: Piero Messina decide di esordire dietro la cinepresa affrontando uno dei temi più complessi che esistano, ovvero il dolore per la perdita di un figlio. Purtroppo, nonostante l’interpretazione di una straordinaria Juliette Binoche e della giovane Lou de Laage, a saltare agli occhi dello spettatore è l’eccessiva ricercatezza della regia, contraddistinta anche da un’attenzione per i dettagli ai limiti dell’ossessività come, ad esempio, quando un filo del tessuto di una poltrona viene inquadrato per quasi dieci secondi. Traspare, inoltre, accanto a una sceneggiatura non impeccabile e a una lentezza a tratti esasperante, un filo di presunzione da parte di un regista che, in ogni caso, ha il futuro e la giovane età dalla sua parte.

Equals 5,5: L’idea non è certamente delle più originali, come non lo è la trama nella sua interezza, ma sono indubbiamente presenti elementi da salvare come, ad esempio, la descrizione della dittatura del futuro. Niente squadracce o coprifuoco, bensì pubblicità ammalianti, tragedie comunicate con il sorriso sulle labbra e, soprattutto, repressione di ogni tipo di sentimento o di eterodossia. Poteva essere sviluppato meglio, ma si tratta comunque di un film che, nel bene e nel male, lascia qualcosa allo spettatore dopo i titoli di coda.

L’Hermine 7: Sceneggiatura di ferro, regia impeccabile ed un ottimo Fabrice Luchini, premiato come miglior attore della Mostra, sono i punti di forza di questa commedia francese ambientata in un’aula di tribunale (“Corte d’Assise!”,correggerebbe il protagonista con puntiglio). La vicenda processuale non è che lo sfondo alla miriade di rapporti umani che possono instaurarsi anche in una circostanza tragica come la morte di una bambina, mentre il vero caso da risolvere per il giudice interpretato da Luchini sembra essere il rapporto con sé stesso e con gli altri.

A bigger splash 4: In una parola: irrispettoso. Luca Guadagnino presenta alla Mostra un ritratto dell’Italia e della Sicilia adatto ai peggiori stereotipi anglosassoni. Civiltà antidiluviana, capperi, ricotta fatta in casa, forze dell’ordine comiche, grottesche, pigre,  non professionali e sempre pronte a dare la colpa all’immigrato di turno, personaggi nostrani che parlano tra loro come in un teatro di avanspettacolo. Non bastano Ralph Fiennes e Tilda Swinton, comunque ottimi, a regalare la sufficienza a questo remake malriuscito de “La Piscina”, thriller francese del 1969 con Alain Delon e Romy Schneider.

Rabin 8: Amos Gitai non nasconde certamente la sua simpatia per Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, ma decide di rappresentare l’inchiesta sulla sua morte in modo non solo impeccabile, ma anche imparziale, come dimostra la scena dello sgombero della colonia israeliana sulla Striscia di Gaza.  La regia è d’altissimo livello, con il maestro che utilizza a proprio piacimento la sua specialità, il piano sequenza. Nonostante alcuni momenti di pausa, il ritmo è apprezzabilmente rapido e godibile, mentre lo svolgimento della trama regala, oltre a dubbi sulle falle della sicurezza che hanno portato all’omicidio del Primo Ministro, un perfetto spaccato dell’Israele moderna, dilaniata dal conflitto tra chi vorrebbe la pace con i Palestinesi e gli oltranzisti ultra-ortodossi.

 

Non essere cattivo 6,5: L’opera del defunto Claudio Caligari si rifà alla sua filmografia passata, su tutti Amore Tossico, e a quella pasoliniana, con i protagonisti che sembrano appena usciti da Ragazzi di vita. I giovani attori interpretano in modo impeccabile la parte, mentre il regista riesce sapientemente a bilanciare ironia e malinconia, comicità e tragedia, senza mai eccedere nell’uno o nell’altro senso.

Anomalisa 6,5: Non inganni il genere, quello del film d’animazione, che spesso fa storcere il naso agli esperti e agli addetti ai lavori. Il tema è più profondo di quanto possa apparire e riguarda l’innata incapacità dell’uomo a comunicare con il prossimo e a legarsi affettivamente a quest’ultimo. Geniale, a parere di chi scrive, l’idea di dare a tutti i personaggi, ad eccezione dei due protagonisti, lo stesso volto e la stessa voce, così da rendere nel modo più forte possibile il dramma esistenziale del protagonista, Michael, che è, in realtà, quello di tutti noi. Oltre a ciò, è presente anche una comicità assolutamente apprezzabile e tutt’altro che volgare.

Sangue del mio sangue 5: Diviene chiaro dopo poche sequenze come Marco Bellocchio intendesse realizzare due film, uno ambientato nel XVI secolo e un altro al giorno d’oggi. In seguito, per motivi sconosciuti, ha deciso di accorparli in un’opera unica, generando confusione e mancanza di chiarezza. Oltre ad un diffuso e semplicistico anticlericalismo, non è facilmente intuibile il significato complessivo dell’opera. Chi ha parlato di citazioni de L’ispettore generale di Gogol non ha, nella maggior parte dei casi, letto quest’ultimo o visto il film in concorso. Non si può, tuttavia, non menzionare la straordinaria interpretazione di Roberto Herlitzka nei panni del “Conte”, un misterioso e anziano nobile che ha deciso di vivere lontano dal mondo e dalle persone che lo popolano. Dubbi, infine, anche sulla colonna sonora. Seppur riarrangiate da un coro di voci bianche, le note dei Metallica stonano considerevolmente con scene ambientate in un convento del ‘500

Marco D’Alonzo

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