E’ ormai drammatico nella sua evidenza come gli equilibri politici, sociali e religiosi del Medio Oriente, mantenuti stabili per decenni dai rapporti di forza della Guerra Fredda ed incrinatisi violentemente con gli attentati dell’11 settembre, siano definitivamente saltati. La Primavera Araba ha rimosso dalla scena quasi tutti i dittatori storici dell’area nordafricana, soggetti tanto sanguinari ed autocratici quanto avvezzi ad imbrigliare ed a stroncare qualsiasi tentativo di eversione di natura religiosa, sostituendoli nella maggior parte dei casi con uno stato di perenne guerriglia a sfondo settario. E’ l’esempio della Libia, dove la caduta di Muammar Gheddafi ha determinato l’inizio di una spirale di violenza senza fine tra le forze filogovernative, il governo parallelo islamista di Tripoli e le milizie jihadiste che un inviato speciale dell’ONU, Bernardino Leòn, sta disperatamente cercando di ricomporre. Soltanto la Tunisia e l’Egitto costituiscono un’eccezione, seppur per cause diametralmente opposte.
In Siria, l’esercito regolare del presidente Bashar Al-Assad, sostenuto dal vicino Iraq, dalla Russia, dall’Iran e da numerose milizie sciite finanziate da quest’ultimo come Hezbollah, ha riconquistato molte posizioni negli ultimi mesi e tiene saldamente in pugno i centri nevralgici del Paese; l’intera parte nord-orientale, tuttavia, è nelle mani dello Stato Islamico, che ha di fatto rimosso il confine con l’Iraq e che tiene costantemente sotto pressione tanto le forze filogovernative quanto quelle ribelli e curde. Assad, indicato inizialmente dall’Occidente come un nemico da abbattere e paragonato addirittura da alcuni politici ad Adolf Hitler, si ritrova adesso nella paradossale condizione di soggetto maggiormente affidabile nel conflitto. Non è migliore la situazione in Iraq, dove il Califfato controlla la parte settentrionale del Paese, con le relative riserve petrolifere, e in Yemen, il cui governo è stato costretto a dimettersi in seguito all’aggressione armata delle milizie sciite filoiraniane Houthi e di quelle sunnite di Ansar Al-Sharia, legate ad Al-Qaeda.
La strategia dei raid aerei contro i jihadisti si è rivelata un’utile soluzione tampone, perfetta per ammansire l’opinione pubblica interna e per indebolire le forze militari dello Stato Islamico, come hanno dimostrato la vittoria curda a Kobane dopo quattro mesi di assedio e la liberazione di Tikrit, ma il momentaneo insuccesso della seguente offensiva contro Mosul non ha potuto fare altro che ricordare al mondo quanto il conflitto sia ben lontano da una conclusione. Una guerra su vasta scala come quella in Iraq può essere risolta solo con un intervento di terra.
Alle potenze occidentali si presentano due alternative: continuare a scegliere di non agire e di proseguire con le incursioni aeree, oppure stabilire un piano d’azione comune e coordinato contro la minaccia del terrorismo islamico. Qualora dovessero optare per la seconda, costosa ipotesi, ecco cinque mosse con cui limitare considerevolmente la minaccia:
1)Intervento di terra in Iraq. Come già precedentemente affermato, non è realistico pensare di sconfiggere le milizie dello Stato Islamico, perlopiù costituite da ex combattenti ceceni, da ex soldati dell’esercito di Saddam Hussein e da militanti esperti provenienti da tutto il mondo musulmano, con i soli bombardamenti aerei, o, almeno, non lo è a breve termine. Per quanto questi ultimi possano agevolarne le operazioni, l’esercito regolare iracheno e i peshmerga curdi non hanno la forza sufficiente per porre fine in tempi accettabili al conflitto. Sarebbe auspicabile il dispiegamento di un contingente di truppe occidentali nel teatro delle operazioni, non certo dell’entità di quello che invase il Paese nel 2003, né tantomeno della potente armata che fece lo stesso nel 1991, bensì costituito da 20.000-30.000 soldati NATO perfettamente addestrati che fungano da “apripista” per le forze locali nella riconquista dei territori in mano allo Stato Islamico. Estirpare l’epidemia jihadista dall’Iraq, puntellando al contempo il governo filo-occidentale di Baghdad, contribuirebbe enormemente al restauro della stabilità nella regione.
2)Costituzione di un “cordone sanitario” intorno alla Siria. Se in Iraq un intervento di terra occidentale sarebbe possibile, per quanto sia attualmente escluso dall’agenda delle cancellerie europee e dell’amministrazione americana, la situazione siriana, con la sua complessità e con la sua molteplicità di interessi in gioco, lo esclude categoricamente. Dispiegare truppe contro l’ISIS in Siria significherebbe non solo smentire anni di dichiarazioni e di atti politici ostili al regime di Assad, il quale più di ogni altro beneficerebbe dell’intervento militare occidentale, ma anche determinare uno squilibrio nei rapporti di forza della regione che porterebbe potenze come la Turchia e l’Arabia Saudita ad attuare ritorsioni contro l’Iran o l’Occidente stesso, oppure ad intervenire ancora più pesantemente a sostegno delle altre formazioni ribelli. Assurdo ed irrealistico sarebbe, poi, ipotizzare un intervento militare contro l’ISIS che prescinda dall’appoggio al governo siriano. Tuttavia, una volta debellata la piaga jihadista dall’Iraq, le potenze occidentali potrebbero, e dovrebbero, fare in modo che il dominio e l’influenza del Daesh restassero circoscritte alla Siria, diventata ormai una vera e propria palestra per esaltati ed aspiranti terroristi di tutto il mondo; gli attentatori del Museo del Bardo di Tunisi, ad esempio, avevano combattuto nelle file dell’ISIS contro le truppe regolari siriane e le altre forze antigovernative. Per fare ciò, la soluzione più logica e praticabile sarebbe fornire supporto diplomatico, politico, logistico ed, eventualmente, anche militare agli Stati confinanti, in particolare alla Giordania, la più minacciata, e al Libano, dove è già presente una forza di interposizione dell’ONU, stanziata nel 2006 in seguito alla guerra tra Israele ed Hezbollah. Proprio la presenza di quest’ultima milizia sciita filoiraniana, tuttavia, costituisce già di per sé un baluardo contro eventuali sconfinamenti del Califfato nel Paese dei cedri.
3)Supporto totale al negoziato di Ginevra sulla Libia con l’appoggio dell’Egitto. Le trattative tra i due governi rivali di Tobruk e di Tripoli, in corso a Ginevra e in Marocco ormai da mesi, costituiscono l’unica speranza per una effettiva pacificazione della Libia. L’auspicabile soluzione federale al conflitto, tuttavia, è ostacolata dalla presenza sul territorio di alcune migliaia di miliziani, affiliati prevalentemente allo Stato Islamico e ad Ansar-Al Sharia, nonché dall’ostracismo dei “falchi” della fazione laica di Tobruk, guidati dal generale Khalifa Haftar. In quest’ottica, per assicurare l’autorevolezza e la validità dei negoziati, è essenziale che l’Occidente eserciti pressioni sull’Egitto di Abd-Al Fattah Al-Sisi, il principale sostenitore di Haftar e della sua “Operazione Dignità”, affinché contribuisca fattivamente alla pacificazione dell’ex dominio di Muammar Gheddafi e cooperi all’eliminazione dal suolo libico dei miliziani jihadisti. Una Libia stabile, sicura e in pace determinerebbe da un lato la fine dell’espansione del Daesh in Africa Settentrionale e, dall’altro, un indubbio contributo all’arginare l’inarrestabile frusso di migranti diretti in Europa dalle sue coste. Il recente avvicinamento politico ed economico tra Al-Sisi e il Presidente russo Putin non deve essere visto come un ostacolo, ma come un’opportunità per appianare le divergenze tra l’Occidente e la Federazione Russa, se non altro per quanto concerne il Nordafrica.
4)Invio di una forza ONU nel Sinai. Neanche l’Egitto del generale Al-Sisi è rimasto immune alla penetrazione del Califfato. In particolare, nella penisola del Sinai, cerniera tra Asia ed Africa, imperversa un’insurrezione armata di sostenitori del Daesh, a causa della quale hanno perso la vita diverse centinaia di egiziani, sia civili che militari. Il governo egiziano ha le possibilità politiche e militari di sconfiggere autonomamente gli islamisti dell’area, sostenuti anche dai transfughi della Fratellanza Musulmana, ma sarebbe auspicabile il dispiegamento di una forza di interposizione dell’ONU che assicuri la cessazione degli scontri, il pieno successo della repressione governativa e una stabile e duratura sicurezza al confine meridionale di Israele, anch’esso minacciato.
5)Cooperazione con la Russia. Quest’ultimo punto consiste in un’azione esclusivamente diplomatica volta a stemperare i rapporti, attualmente tesi fino allo spasimo, tra il mondo occidentale e la Russia di Putin. In questo senso, gli accordi di pace di Minsk relativi alla guerra del Donbass potrebbero costituire il “trampolino di lancio” per un graduale annullamento delle sanzioni emanate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, particolarmente gravose per le boccheggianti economie comunitarie. La Federazione Russa, inoltre, anch’essa nemica di lunga data del fondamentalismo islamico (come dimostrano i quindici anni di guerra contro i separatisti ceceni, un esponente dei quali è l’attuale comandante militare supremo del Daesh), potrebbe assurgere a partner decisivo per la guerra al terrorismo, tenendo presenti i suoi legami con il governo di Assad in Siria, con l’Egitto di Al-Sisi e con l’Iran, destinato a diventare un punto di riferimento per la stabilità del Medio Oriente. Il muro contro muro dell’ultimo anno non ha fatto altro che aggiungere altra tensione ad un quadro di sicurezza globale tutt’altro che sereno.
Infine, non deve essere sottovalutata la missione multinazionale di Chad, Niger e Benin in aiuto alla Nigeria assediata dai guerriglieri di Boko Haram. L’operazione, sotto l’egida dell’Unione Africana, rappresenta un esempio di conduzione della lotta al terrorismo che dovrebbe essere preso a modello da tutte le organizzazioni regionali del mondo, Lega Araba in primis. I contingenti militari dei Paesi coinvolti, infatti, non solo hanno puntellato l’autorità del governo centrale nigeriano, ma hanno anche riportato degli apprezzabili successi sul campo di battaglia.
Marco D’Alonzo