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La Giornata della Memoria, il passato che ritorna

La Giornata della Memoria, il passato che ritorna

In questo articolo abbiamo cercato di riflettere sull’importanza della Giornata della Memoria nella società contemporanea e sui rischi sempre più reali rappresentati da un passato che ritorna con prepotenza.

La Shoah e il valore dell’eredità storica nella società odierna

Oggi ricorre la Giornata della Memoria, istituita il primo novembre 2005 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite in ricordo della liberazione, da parte delle truppe sovietiche, dei prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta il 27 Gennaio del 1945.
Da quel freddissimo giorno invernale di ormai settantacinque anni fa, cosa è rimasto e cosa deve rimanere oggi in eredità all’umanità di quei terribili eventi?
Questa è una domanda fondamentale da porsi, sia per comprendere davvero il senso della Giornata della Memoria, sia per dare un senso alle atroci sofferenze che hanno subito le 15 milioni di vittime dell’Olocausto  (tra cui oltre agli ebrei ricordiamo Rom e Sinti, omosessuali, portatori di handicap, religiosi e dissidenti politici).
La domanda sull’eredità di questa memoria storica riguarda non solo il tragico esodo della stirpe ebraica, avvenuto a seguito dell’emanazione delle leggi razziali, ma ha un’eco più vasto, che va a toccare anche le altre stragi condotte dalle altre forze politiche estranee al nazismo, che hanno segnato in epoche e luoghi diversi la storia dell’umanità. Tra le più note ricordiamo ad esempio le vittime dell’Unione Sovietica sotto il regime di Stalin, la strage degli Armeni, il massacro degli abitanti autoctoni dell’Istria e della Dalmazia (la maggioranza delle quali erano Italiani) e così via dicendo. La storia dell’umanità è segnata da eccidi e pulizie etniche di questo tipo. Ciò che però inquieta e contraddistingue la Shoah è il suo carattere sistematico: una pulizia etnica, studiata a tavolino mediante apparati tecnici e burocratici affinati per raggiungere livelli di efficienza nello sterminio mai visti prima d’ora. Insomma, un’autentica fabbrica della morte, un’industria dell’eliminazione, quella che è stata ideata nelle stanze di discussione degli oligarchi Nazisti.

La progettualità di questo piano di eliminazione e la progettazione tecnico-logistica di questo massacro, hanno fornito un nuovo volto allo sviluppo della tecnica, dove la parola ‘tecnica’ la si deve interpretare in senso lato, nella sua accezione moderna, cioè nell’applicazione di conoscenze e metodi basati su assunti scientifici per l’ottenimento di fini. Tali fini dovrebbero avere un ruolo di miglioramento della qualità di vita dell’uomo e dunque essere a servizio di esso.

Con il suo sviluppo, la tecnica moderna, investita di un’aurea salvifica a partire dalla sua culla, cioè l’epoca dell’illuminismo, attraverso eventi come l’eliminazione sistematica prevista dalla Soluzione finale e la costruzione di ordigni bellici quali le armi di distruzione di massa, ha rivelato il suo potenziale distruttivo, disvelando i suoi lati più oscuri. Se da una parte sarebbe corretto chiedersi, come è stato fatto in ambito filosofico a partire da Martin Heiddeger fino a Emanuele Severino, se sia giusto asserire che l’uomo da “fine per la tecnica” sia in realtà anch’esso “mezzo per la tecnica”, un fatto evidente deve comunque balzare agli occhi.

Il processo narcisistico di dominio e esaltazione dell’identità nazionale, che risponde al bisogno inconscio, psicologico, individuale e collettivo di autostima, analgesico rispetto alle angosce di morte e di fragilità al quale da sempre e per sempre è tormentato l’uomo, è stato canalizzato per mezzo della tecnica, aumentando di gran lunga il suo raggio mortifero.

Ciò che allora ci deve rimanere in eredità della Shoah, è proprio una riflessione sul suo carattere metodico, che deve creare in noi la consapevolezza per la quale neppure lo sviluppo tecnico-scientifico (investito del ruolo etico di miglioramento della condizione di vita dell’uomo e per la pace) possa salvarci. Anzi, tutt’altro: la stessa tecnica, a certe condizioni, ci si può rivolgere contro. E allora cos’è che può salvarci?

Prima di rispondere a questa domanda vorrei che il lettore ponesse attenzione alle condizioni politiche di oggi. I nostri anni 20’, esattamente come cento anni fa, sono segnati dal ritorno di un  nazionalismo tendente a foraggiare queste istanze aggressive e questi bisogni di autostima: “in contrapposizione a” certe categorie sociali, dunque catalizzando l’odio contro alcune di esse. Il gioco del capro espiatorio, di biblica memoria, continua ad essere attivo e funzionante nell’individuo quanto nella società. L’illusione che viene incoraggiata dalla retorica di questa politica oggi chiamata “sovranista” (ma in realtà sempre presente con i suoi fondamentali processi di pensiero nella storia delle civiltà umane) è che i problemi legati alla crisi economica, al malessere sociale e alla disoccupazione si possono espiare nell’odio contro gli immigrati (o ancora una volta contro gli ebrei, come riscontrato da un evidente ritorno dell’antisemitismo che è culminato nell’episodio della porta marchiata con la scritta juden hier).

Il consenso politico è mantenuto foraggiando l’odio, invece che mediante discorsi politici che rispondano alla complessità dei problemi che siamo chiamati a fronteggiare. Il linguaggio emotivo è più semplice, immediato e diretto, fa breccia senza che gli argomenti siano fondati, ed è più forte di una comprensione che abbracci invece tale complessità. Da una parte questo tipo di linguaggio emotivo è a portata di mano e fruibile a tutti, dall’altra risponde ai suddetti bisogni psicologici narcisistici degli individui. Allora è a questo punto che deve intervenire l’eredità della memoria. Lo scenario politico di oggi, infatti, è un film già visto e di questo film già conosciamo i possibili terribili sviluppi, perché gli autori e gli attori in campo sono gli stessi, cioè gli uomini e le società da essi costituite.

È infatti un discorso sull’uomo quello che deve essere fatto per dar senso all’eredità della memoria, un discorso sulle sue tendenze, le sue fragilità e la violenza insita nel suo essere prima ancora che “animale razionale”, un animale vero e proprio.

La ricerca di una dimensione etica della complessità, è un traguardo molto faticoso, e deve passare per mezzo di una conoscenza e di un discorso sull’uomo stesso. La ricerca della verità non può stagnare soltanto su assunti tecnico-scientifici, che tendono ad eliminare la soggettività come un errore da ridurre ai minimi termini, nella grande alienazione che ne segue, cioè la dimenticanza del soggetto in esaltazione dell’oggetto, come possiamo dire parafrasando il pensiero di Edmund Husserl espresso nell’opera intitolata la “Crisi delle scienze europee”. Finché ci concentreremo a valorizzare unicamente la lettura tecnico-scientifica del mondo, avremo i paraocchi sul grande co-autore di questo processo di lettura: in assenza di un discorso sull’uomo e sull’etica, il rischio che l’eredità della memoria si spogli del suo valore è altissimo. Occorre un nuovo tipo di umanesimo, occorre che gli stati incoraggino a partire dall’educazione scolastica la riflessione filosofica e antropologica sull’uomo, a favore della fondazione di un nuovo slancio della disciplina etica, disciplina oggi troppo screditata a favore di una lettura tecnico-scientifica del mondo. Occorre porre l’accento sulla riflessione, in un clima di comprensione e non di negazione di quella parte bestiale e irrazionale che appartiene allo statuto ontologico dell’uomo stesso. Soltanto creando consapevolezza sulla vulnerabilità come individui e come gruppi sociali a certi tipi di fanatismi politici, è possibile una nuova autentica consapevolezza etica, e soltanto per mezzo di tale consapevolezza è possibile leggere nel passato il presente e il futuro. Soltanto in questo modo è possibile comprendere il valore dell’eredità della memoria e far sì che non vengano ripetuti gli stessi errori.

Historia magistra vitae” così dicevano i romani e come ci ricorda questo motto, sono di questo tipo le verità che dobbiamo far proprie per comprendere autenticamente il senso della storia. Occorre riscoprire il valore alla filosofia, come sistema di pensiero, la quale, sebbene manchi dell’assunto di scientificità nelle sue asserzioni, rivela a noi un altro ordine di verità, la cui autorità, in tasca al principio di falsificabilità, deve essere ricondotta a fianco di quelle verità di ordine tecnico-scientifico, in una comprensione del mondo che riscopra quella soggettività che costituisce il senso stesso della storia.

“È nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato.”

Hannah Arendt, La banalità del male.

 

                                                                                                                                                           Gabriele Bacci

 

Il Giorno della Memoria: il clima che cambia, il passato che ritorna

Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa sfondava i cancelli di Auschwitz, svelando al mondo intero l’orrore creato dalla furia nazifascista. Da quel momento in poi sarebbe stato impossibile negare la realtà, sarebbe stato impossibile dimenticare. Perciò, in ricordo di questo anniversario è stato istituito a livello internazionale la Giornata della Memoria, dedicata alla commemorazione delle 15 milioni di vittime dell’Olocausto, 6 delle quali erano ebree.

I preziosi moniti dei superstiti della Shoah si inseriscono in percorsi delicati che hanno permesso faticosamente di giungere alla piena consapevolezza della necessità del ricordo.

O per lo meno, così era sembrato fino a pochi anni fa, vista e considerata la nuova ondata di razzismo e antisemitismo che stiamo affrontando.

Il 2019 è stato l’anno paradossale in cui 98 senatori di centrodestra si sono astenuti dal votare la mozione Segre, volta alla creazione di una nuova commissione contro l’odio; pochi giorni dopo, la stessa Senatrice a vita, ottantanovenne sopravvissuta ad Auschwitz, è stata messa sotto scorta, in quanto vittima di quotidiani attacchi antisemiti, che riceve soprattutto via social.

Il web è in effetti quel “non luogo” in cui proliferano i principali fenomeni discriminatori, frutto del pensiero ipersemplificato e dell’imbarbarimento della ragione che lì si compiono. Penso sia inammissibile che ad oggi possano essere consultati tranquillamente siti nazisti, in questi giorni pullulanti di contributi negazionisti.

Ma esiste davvero un confine tra reale e virtuale?

Aumentano i blitz delle forze dell’ordine nei covi dei gruppi di estrema destra, che in realtà non hanno neanche bisogno di nascondersi più di tanto, sentendosi in qualche modo legittimati ad agire ricorrendo ai peggiori metodi squadristi. Non a caso, sempre nel 2019, i ragazzi del Cinema America sono stati aggrediti in pieno Trastevere, così come altri vengono picchiati fuori dai locali semplicemente perchè gay; la libreria Pecora Nera è andata nuovamente in fiamme, questa volta senza avere la forza di rinascere dalle sue ceneri, e sempre più spesso vediamo comparire striscioni e sfregi nazisti che imbrattano i nostri monumenti. Il nuovo anno non lascia presagire niente di buono, pochi giorni fa a Mondovì, sulla porta di casa del figlio della partigiana Lidia Rolfi è apparsa una stella di David accompagnata dall’agghiacciante scritta “Juden hier”.

Non c’è da stupirsi, viviamo in città apertamente di destra governate da gente di destra, dove vengono intitolate strade ad Almirante o nelle quali si decide di non stanziare finanziamenti per far partire dei liceali sul Treno della Memoria. A mio parere quest’ultimo caso accaduto a Predappio, è di una gravità assurda in quanto nega l’importanza dell’istruzione nel processo di costruzione della Memoria; eppure i recenti fatti di cronaca fanno sorgere il dubbio che neanche le nostre Scuole ed Università siano totalmente immuni da tali pericoli, considerando la vicenda del Professore di Filosofia dell’Ateneo senese che sulle sue pagine social inneggiava al nazismo.

Tuttavia non è necessario analizzare solo i casi estremi per capire che il clima è cambiato; banalmente è sufficiente guardare la quotidianità e ascoltare i discorsi delle persone nei luoghi pubblici; odiamo sentircelo dire ma tendiamo continuamente a discriminare, per cui : “non sono razzista” ma all’invasione si risponde con un “sempre e solo prima gli italiani”, “non sono omofobo” ma una battutina ci scappa sempre, “sono solidale” ma solo con chi voglio.

Guai poi a parlare di emergenza razzismo e fascismo nel 2020, fenomeni lontani che non esistono più. Eppure i rapporti tra i principali partiti nazionali e i peggiori gruppi di estrema destra sono più che accertati.

Nel vuoto totale lasciato dalla politica, il populismo -oggi di pari passo con il sovranismo- è stata la risposta più rassicurante data alla miseria dei cittadini. Uno dei pilastri su cui esso si fonda è l’alimentazione della paura verso tutto ciò che è “altro” rispetto al proprio popolo.

E si sa, spesso tendiamo a reagire alla paura più irrazionale aggredendo con rabbia.

Sono ben lontana dall’affermare che populismo e destra estrema siano la stessa cosa, ma sicuramente qualche caratteristica in comune è riscontrabile: d’altronde non saprei come definire, se non come per lo meno “intimidatoria”, una citofonata fatta per chiedere se in una casa viva un presunto spacciatore tunisino che mette a rischio la tranquillità del vicinato.

è bene affermarlo ancora, le nuove manifestazioni di odio si combattono prima di tutto con la cultura e l’intelligenza. Giornate come quelle del 27 gennaio sono più che mai essenziali, soprattutto adesso.

Tuttavia pochi giorni fa Marco Damilano ha giustamente affermato che ai nuovi nazifascisti manca tutto tranne che la memoria; e allora se siamo davvero incapaci di imparare dai nostri errori, forse sarebbe necessario far capire con maggiore determinazione che ogni forma di discriminazione, diffamazione ed apologia del fascismo è reato, e come tale dovrebbe essere trattata.

 

                                                                                                                                                     Benedetta Cirillo

 

 

 

 

 

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