Ultimamente sentiamo sempre più parlare di terrorismo, ISIS e attentati e ciò che ne è scaturito, è una sorta di “isteria di massa”, generata da una eccessiva disinformazione.
In merito a ciò, ho deciso di intervistare personalmente Lamberto Frontera, grande amico nonché autore di Uni Info News, al fine di far chiarezza su questi fenomeni che stanno interessando in grandissima parte non solo la politica, ma anche il il pensiero comune.
Ciao Lamberto, partiamo subito da una panoramica generale, tu sai che stiamo vivendo in un periodo segnato dal terrorismo fondamentalista. Credi che il terrore, provocando una sorta di isteria di massa tra le persone, stia vincendo la sua battaglia?
«Sicuramente il terrorismo globale, che con l’attacco di Parigi ci colpito vicino e profondamente, sta portando a termine alcuni degli obiettivi che si era prefissato. Quali, tra i molti, l’incremento della violenza e della conflittualità e l’insinuazione del sospetto dei confronti di tutti i cittadini di confessione islamica. Ciò, assieme allo sterile dibattito politico corrente, che vede contrapporsi quasi solamente due macro-visioni superficiali (la prima che vuole “l’Occidente” colpevole di fronte alla storia e quindi vittima giustificata del fondamentalismo e una seconda che, invece, vorrebbe risolvere la più grande questione politica corrente soltanto con i bombardamenti), provoca un profondo stato di insicurezza, tipico del post-attentato. Ciò nonostante, il terrorismo non potrà mai vincere questa battaglia. Potrà fare paura, certo, ma a prevalere saranno, come ci insegna la storia, i detentori della ragione, non i fanatici. Nessun terrorismo ha mai piegato le nostre leggi, la nostra libertà e la nostra “arte di vita”, come ha dichiarato il Presidente Hollande.»
A proposito di Hollande e di Parigi. Come mai la Francia è stata vittima di numerosi attentati, da quelli tragicamente noti, ad altri sventati appena in tempo (come quello del treno proveniente da Amsterdam)?
«La Francia è al centro del mirino dei terroristi per numerose ragioni storiche e sociopolitiche. Gli attentatori adducono come motivazione del loro folle gesto l’atteggiamento aggressivo tenuto in politica estera della Francia negli ultimi anni, riferendosi specialmente all’intervento in Libia e Mali, oltre che all’impegno in Iraq e adesso in Siria. Più ragionevolmente, le motivazioni, che comunque non giustificano mai e ripeto mai un atto di terrorismo, vanno ricercate nelle condizioni di emarginazione di molti giovani islamici, nel difficoltoso processo identitario che queste minoranze stanno affrontando e nell’indottrinamento fondamentalista che viene impartito da figure spesso provenienti dai paesi arabi o direttamente dal web. Fatto sta che “l’ISIS” non è mai arrivato a Parigi. A commettere quelli attentati sono stati proprio ragazzi francesi e belgi, figli di immigrati, che, in difficili condizioni, hanno visto una via d’uscita nell’Islam radicale. È per questo che l’Occidente non deve vincere questa sfida nelle sabbie del deserto Iracheno, ma nelle periferie delle sue grandi capitali. È là che bisogna vincere una lunga battaglia culturale, per creare una sintesi di convivenza.»
Ma se gli attentatori erano di nazionalità belga e francese, ciò significa che il terrorismo si sta davvero globalizzando?
«Sì sicuramente. Daesh non è più solo un fenomeno locale, a cavallo tra Siria e Iraq. Ormai ha capacità di reclutamento in tutto il mondo e getta la sua ombra su molte nazioni. Gli attentatori che hanno colpito paesi così lontani, da Bamako a Parigi, non sono accomunabili alla stessa organizzazione terroristica, ma combattono tutti per una visione simile, con tattiche riconducibili ad una strategia comune. Questo però non significa che Daesh si sia infiltrato ovunque. Significa che, come se fosse un marchio del terrore, particolarmente efficace, il termine “isis” viene usato, purtroppo anche dalla cronaca occidentale, per indicare forme di terrorismo in realtà profondamente diverse tra di loro, che richiedono risposte diverse. Per noi, come ho già scritto, il primo teatro di questa nostra sfida è nelle periferie e non in medio oriente.»
Che ruolo ha la disinformazione nelle società civili vittime del terrorismo?
«La disinformazione è una delle armi più potenti del terrorismo. Come un domino, amplifica gli effetti dell’attentato in sé e per sé, portando le società a produrre risposte inefficaci, contraddittorie e pericolose. Di fronte ad una violenza di questa portata, il primo passo che le nazioni devono compiere è quello di fermarsi e riflettere su quali obiettivi portare a compimento nel lungo periodo, riformulando alleanze e apportando soluzioni globali, globali tanto quanto il fenomeno da vincere. I media, spesso, invece, non fanno adeguata informazione e veicolano i peggiori istinti, provocando gravi conseguenze. Vedi, ad esempio, il titolo di Libero del giorno seguente i fatti di Parigi. Con due parole aveva già annullato la visione globale della sfida in atto, semplificando le parti in lotta tra “Occidente” e “Islam”, quando in realtà a subire le maggiori violenze è proprio la maggioranza degli islamici.»
La gente si interroga sempre di più su cosa sia l’ISIS e se sia una forza indipendente o pilotata dall’estero. Cosa ne pensi al riguardo?
«Per quanto ne possa sapere, il conflitto in corso combina entrambi questi elementi. Presenta fattori tipici del conflitto regionale in atto, tra sunniti wahabiti e sciiti, tra Siria e Iraq, ai quali aggiungono le caratteristiche di una guerra combattuta per delega dalle potenze dell’area, quali l’Arabia Saudita e l’Iran. In più, sono entrati in gioco attori internazionali di grande rilievo come gli Stati Uniti e la Russia. Ognuna di queste parti sostiene una fazione in lotta nella regione. Possiamo però tranquillamente affermare che Daesh, sostenuta indirettamente dai propri alleati sunniti, non sia una forza del tutto autoctona, ma che combatta, grazie ad armi e finanziamenti, per conto di altri attori regionali, con il chiaro scopo di sovvertire l’ordine nell’area, imporre la propria legge all’interno del mondo islamico e trascinare l’Occidente in una logorante guerra.»
Esiste una soluzione che possa impedire a Daesh di portare a termine i propri obiettivi?
«Le soluzioni ci sono ma è necessario che contro il Califfato si costituisca una vasta alleanza, più inclusiva e determinata dell’attuale coalizione che integri maggiormente in nostri interlocutori del mondo arabo e che, come contro i fascismi del XX sec, schieri tutte le migliori forze del mondo libero. Attenzione però, perché una soluzione militare non è sufficiente. Ho già parlato dello sforzo culturale da compiere con le minoranze islamiche. Mi riferisco, adesso, alla necessità di avere un piano politico per il post-isis. Ciò che mancò per il dopo Saddam o il dopo Gheddafi. È necessario che le parti in causa si uniscano affinché le divergenze vengano appianate, in nome della costruzione di un mondo libero dal terrore.»
Per sconfiggere il Califfato è quindi anche necessario coalizzarsi con la Russia, che al momento sembra, in effetti, l’unica forza disposta a combattere con determinazione l’isis.
«Sì, è necessario unirsi a Putin nell’impresa di pacificare l’area. Questo però deve accadere soltanto se si è coscienti del fatto che Putin si sia schierato in Siria, non perché sia un paladino della Libertà, ma, piuttosto, per difendere la sanguinaria dittatura di Assad, uno dei pochi alleati rimasti allo Zar. Inoltre, lo zar non deve giustificare le proprie posizioni in politica estera all’opinione pubblica interna, di fatto assolutamente non libera, consentendogli una grande libertà di movimento. Infine, Putin, per sconfiggere il Califfato, chiederà ai paesi occidentali di chiudere un occhio sull’annessione della Crimea e sull’occupazione dell’est dell’Ucraina. D’altronde, gli Stati Uniti, dopo anni di fallimentari interventi nell’area, non giocheranno più un ruolo di primo piano nel conflitto in corso, sebbene con i propri raid abbiano aiutato più di chiunque altro i Kurdi a resistere all’avanzata del Califfato. Quindi l’integrazione nella coalizione di altri attori, quali ad esempio la Russia, risulta essere fondamentale, ma a patto che l’Occidente non arretri troppo sul fronte dell’Ucraina e che le soluzioni per il dopo Daesh siano le più condivise possibili, specialmente nel vario e inascoltato mondo islamico.»
Filippo Danesi
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