“Non sono più sicuro di niente, ma non vorrei in nessun modo ritornare indietro…stavo aspettando i vostri occhi. Assegno a voi, per ora, la parte della realtà, la stessa che ancora vorrebbe abitarmi”. Armando Punzo
Immersivo, a tratti onirico, così si potrebbe definire Beatitudo, lo spettacolo inaugurale della nuova Stagione di prosa del Teatro Verdi di Pisa, interpretato dalla Compagnia della Fortezza di Volterra, che quest’anno celebra i suoi trent’anni di attività, sotto la brillante guida del regista e drammaturgo Armando Punzo, messo in scena sabato 6 e domenica 7 ottobre.
SIAMO OBLIO, ECO, NULLA
Lo spettacolo ha inizio nel foyer del teatro, allestito come un’insolita biblioteca. Fin da subito lo spettatore si ritrova immerso dentro un nuovo mondo, dove il tempo sembra essere dilatato. Il riferimento a La Biblioteca di Babele (romanzo uscito nel 1941) di Jorge Luis Borges, da cui il regista ha tratto ispirazione, è evidente. Lo spazio è un minuzioso labirinto ricreato con cura, dentro il quale passeggiano alcune donne con vesti di altri tempi, intente nella lettura. Spostano libri e passeggiano tra il pubblico, con incedere lento e ordinato.
Armando Punzo è al centro della platea. Accoglie il pubblico mentre prende posto a sedere, ricreando fruscii e suoni, che suggeriscono un’aria di attesa e sospensione. In veste di narratore legge alcuni brani di Borges, mentre sul palco ed in platea prendono vita i personaggi descritti, enigmatici, potenti, irrequieti. Tutti mostrano la loro profonda solitudine: “siamo oblio, eco, nulla”. Con la sua narrazione frammentaria e disomogenea, Punzo da una nuova vita a questi personaggi evocati sulla scena, molti dei quali ripresi dalle pagine dell’Aleph, la raccolta di racconti di Borges pubblicata nel 1949.
I PERSONAGGI
La performance è un alternarsi senza sosta di dialoghi, poesie, presenze che non seguono una linea narrativa. Sono personaggi simbolici che appartengono a un altrove immaginario, nel quale i gesti sono cadenzati e fedelmente ripetuti, come lo strisciare a terra, il ruotare su sé stessi o il percorrere la scena e la platea ininterrottamente. Incuriosiscono in particolare due donne che, in uno spazio-tempo diverso, usano la propria voce come fossero strumenti musicali e intonano canti onirici, a tratti ipnotici, grazie al riverbero della loro voce sintetizzata al computer collegato al loro microfono.
Significativa è l’affermazione di uno dei personaggi che rivela: “Siamo versetti, parole, lettere di un libro magico”, in un mondo dove aleggia un’unica domanda: “Questo attimo è reale? Quest’attimo che li sospende tutti”.
La dimensione del rito, nel suo aspetto cerimoniale, è più volte riconoscibile nello spettacolo, nella presenza dei sacerdoti che spesso ricreano cerchi in scena, la testa del Minotauro adagiata su un piedistallo-altare, apparizioni di uomini o donne sul palco che si materializzano in scena come presenze, avvolti in una nube di fumo bianca o rossa. Un rito che non possiede verità spirituali, ma solo domande che non trovano risposta.
Punzo narra le storie al di fuori dell’azione, insieme a un bambino, interpretato dal giovanissimo Marco Piras, un personaggio emblematico che entra in contatto con alcuni personaggi, avvicinandosi a loro, in un silenzio-ascolto. Se nel finale di Dopo la Tempesta, ultimo spettacolo della Compagnia della Fortezza sull’opera di Shakespeare, Punzo e il bambino voltavano le spalle a ciò che restava di un mondo shakespeariano senza speranza, qui i due, tenendosi per mano, si uniscono alla schiera di personaggi immaginari, voltando le spalle al pubblico, ribaltando ulteriormente la certezza tra cosa sia reale e cosa invece immaginario.
LA RAPPRESENTAZIONE DELL’IMMAGINARIO
Una scenografia allusiva e simbolica quella creata da Alessandro Marzetti, che caratterizzava ogni personaggio immaginario, come la testa del Minotauro del racconto La Casa di Asterione. Gli unici oggetti drammaturgici ricorrenti erano i libri e i globi, rossi o bianchi, che rappresentavano non solo la Biblioteca di Babele, ma anche l’Aleph e i mondi che contiene.
La platea e il palco si alternavano continuamente, diventando luoghi d’azione drammatici, uniti da una grande scala centrale. Questo continuo spostarsi dell’azione era accentuato dalle luci, che accendendosi e spegnendosi bruscamente creavano un gioco destabilizzante con continui passaggi dalla scena al pubblico.
Le musiche originali di Andrea Salvatori, insieme alle percussioni dell’ensemble Quartiere Tamburi, sotto il palco, hanno ricreato un’atmosfera a tratti incalzante, forte, imponente e a tratti leggera, armonica, altre volte elettronica, con riverberi e suoni metallici.
Gli spettatori entrano incerti in questi mondi sospesi, ricchi di frasi enigmatiche e storie frammentarie, nelle quali si fatica a riconoscersi. Avvolti da un senso di solitudine e angoscia, i personaggi non cercavano un rapporto diretto con il pubblico, anche se sconfinavano tra le sedute della platea, ma piuttosto ascolto e riflessione sull’esistenza stessa.
Uno spettacolo che ha sicuramente entusiasmato e colpito positivamente gli spettatori, avvolto da quell’alone di mistero che affascina e coinvolge.