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La Brexit secondo la Redazione di Uni Info News

 

 

L’opinione di Lamberto Frontera
Riguardo all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea sono già stati versati fiumi di inchiostro da parte di schiere di illustri opinionisti ed analisti. Al dibattito sorto intorno all’esito della consultazione, vorrei, nel mio piccolo, aggiungere un commento rivolto ad un solo aspetto: il voto referendario. Amartya Sen, filosofo e premio Nobel per l’economia, intervistato sul Corriere della Sera, ha dichiarato: “Bisognerebbe ricorrere al referendum soltanto per questioni semplici ed isolate, sennò si potrebbe venir consultati anche per ridurre le tasse, come proposto qualche anno fa in California. 
In democrazia certe questioni devono essere decise da chi governa. Sen, quindi, pone l’attenzione su un tratto distintivo delle nostre liberal-democrazie. Lungi dall’assomigliare ai governi del popolo delle poleis dell’antica Grecia (démos: popolo e cràtos: potere), le nostre democrazie di stampo rappresentativo chiedono al corpo elettorale di eleggere una classe politica che, in rappresentanza dell’intera nazione, guidi la cosa pubblica per un periodo di tempo limitato. La complessità che oggigiorno caratterizza la politica, specialmente quella internazionale, rende difficile far sì che possa essere compresa a pieno dal popolo tutto.
La delega, la rappresentanza, che si concretizza al momento del voto, garantisce così che le più importanti questioni nazionali vengano analizzate e giudicate da un ceto politico preparato, competente e responsabile delle proprie azioni. Sebbene quanto detto possa apparire perfino scontato, l’entusiasmo che ha pervaso certe forze politiche, convinte della legittimità di porre un quesito così dirompente, come quello sulla Brexit, agli impressionabili elettori britannici, fa pensare che questa definizione minima di democrazia rappresentativa non sia largamente compresa. Per fortuna i nostri Padri Costituenti posero un argine non permettendo che una consultazione come quella britannica avvenga anche in Italia, come sancisce l’Art. 75 della Costituzione: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. ], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Così, tutto ciò che compete l’area dei trattati internazionali e quindi, per estensione, anche dell’Unione Europea, è al sicuro dalla furia del populismo. Allora, se perfino la Costituzione, così attenta a promuovere la partecipazione e il voto popolare, pose un limite all’uso dello strumento referendario, una ragione di certo ci sarà.
Quindi, ben venga la partecipazione, ma solo se consapevole. Ben venga il coinvolgimento del popolo nelle questioni di interesse nazionale, ma solo se questo è in grado di comprendere a pieno tutti i risvolti della propria decisione. E’ folle celebrare l’affluenza britannica, del 72% al referendum, per poi non credere ai propri occhi leggendo le domande più frequenti scritte su Google il giorno seguente alla consultazione, ormai a giochi fatti (“Che cos’è l’UE?”; “Quali Stati sono membri dell’UE?”; “Cosa accade adesso che non siamo più nell’UE?” ). E’ inutile elogiare il coraggio del popolo inglese, se poi viene evidenziato che gran parte dei voti, sia per il “Remain” che per il “Leave“, con una netta maggioranza per quest’ultimo caso, erano dettati dal pregiudizio e da una totale ignoranza sulle conseguenze del voto. Se la storia ci insegna che la democrazia è la miglior forma di governo (o “la peggior ad eccezione di tutte le altre forme, che sono state sperimentate di volta in volta” come disse Churchill), è lecito aspettarsi che almeno il suo strumento più diretto, il referendum, venga utilizzato con parsimonia dai governanti e con coscienza dai popoli. Perché che la parlamentare assassinata Jo Cox e milioni di altri giovani britannici abbiano combattuto un’inutile (ma consapevole) battaglia contro l’ignoranza di un elettorato e dei suoi rappresentanti, così in larga parte incoscienti della propria iniziativa, ha un sapore troppo amaro ed ingiusto per essere accettato.
 
Il Commento di Giorgio Pacini
Dopo una delle campagne elettorali più cruenti di sempre, sfociata pure nell’uccisione della deputata laburista Jo Cox, giovedì scorso la Gran Bretagna ha deciso di dare l’addio all’Unione Europea. Nonostante che le borse, fino a qualche ora prima del voto, registrassero un rialzo positivo avendo fiducia nella permanenza del Regno Unito, a seguito dei primi dati dello spoglio degli scrutini si sono dovute ricredere.
Già nella notte la sterlina ha subito un forte deprezzamento, perdendo circa l’11% del suo valore, il terzo più grave nella sua storia. Alle urne si sono recati 33’551’983 milioni di elettori, e il 51,9% di essi si è pronunciato favorevole alla “Brexit”.
Invece in quasi tutta la Scozia i favorevoli alla permanenza, circa il 62%, hanno superato i separatisti e adesso chiedono un nuovo referendum sull’indipendenza dal Regno Unito, poiché nel precedente del 2014 una parte di essi aveva votato a sfavore dell’uscita dal Regno Unito, con la volontà di rimanere in Europa. Nigel Farage, leader del partito nazionalista ed euro-scettico, UKIP, aveva già pronunciato il discorso della sconfitta, ma nella notte il fronte per l’uscita ha guadagnato sempre più terreno sugli europeisti, tanto da portarlo a un nuovo discorso sulla vittoria, arrivando a dichiarare << Il 23 giugno verrà ricordato come festa d’indipendenza della Gran Bretagna! >>. Pure il suo alleato Beppe Grillo, con cui nel Parlamento Europeo aveva dato vita al gruppo l’Europa della Libertà e della Democrazia Diretta, ha preso delle posizioni di distanza dicendo di voler restare nell’Europa per cambiarla dall’interno.
Volendo analizzare cosa abbia spinto gli inglesi a votare in questo modo, emerge un dato su tutti, la nostalgia: nostalgia di un Impero che non esiste più, e pure il sogno di guidare il mondo occidentale, strappatoli di mano dagli Stati Uniti a seguito della Grande Guerra. Sia lo UKIP che Boris Johnson, il volto populista del Partito Conservatore, hanno cavalcato queste reazioni emotive, frutto di sensazioni diffuse ovunque, negli USA con Trump, che promette di far tornare grande l’America innalzando muri divisori, in Francia con l’estrema destra lepenista, che rispolvera vecchi temi del nazionalismo ottocentesco. Venerdì mattina le borse europee, e non solo, hanno bruciato 637 miliardi, perché gli effetti di questo referendum non sono stati, e non saranno, puramente politici ma anche economici. Intanto che accadrà alla Gran Bretagna ora che è fuori dall’UE? Lo scenario che si prospetta non sarà affatto semplice, lo strappo avverrà a tappe, nell’arco di due anni. Le due parti dovranno negoziare i termini del divorzio, e una volta raggiunti, dovranno essere approvati, a maggioranze qualificate, dal Parlamento Europeo e da quello Inglese. Nel caso non si arrivasse a un’intesa, il Regno Unito rimarrebbe comunque fuori dall’UE ma partirebbero nuove trattative. Il Primo Ministro David Cameron è stato uno dei grandi sconfitti da questo referendum: già costretto a prometterlo durante la campagna elettorale nel 2015, rincorrendo Farage, ha dovuto poi mantenere questa scomoda promessa, fare propaganda per la permanenza nell’Unione e perdere questa sfida. Nella Storia verrà ricordato per aver spezzato non una, bensì due unioni, quella Europea e quella del Regno, perciò le sue dimissioni ormai erano un atto dovuto. Queste sue scelte non sono state intraprese per spirito democratico bensì per una mancanza di coraggio, un difetto posseduto da molti governanti europei, i quali hanno demonizzato l’Unione accollandole la responsabilità di problemi nazionali, che invece non sono stati capaci a fronteggiare. Infatti ognuno di essi si è occupato delle tematiche dell’Unione guardando esclusivamente alla scadenza del proprio mandato, non elevando mai l’orizzonte dello sguardo oltre i loro confini, focalizzati spesso su un bieco provincialismo spacciato per nazionalismo agli occhi di un elettorato sempre più deluso. La Germania, che prima del referendum aveva preferito non intromettersi, a differenza di altri leader stranieri, con l’assenza della Gran Bretagna dal giogo europeo, vede accrescere il suo peso nell’Unione, avendo sempre meno controparti a bilanciare il suo potere. Un dato molto interessante indica che il 75% dei giovani, tra i 18 e i 24 anni, abbia votato per il “remain” mentre il 61% degli over65 per la “Brexit”, e questo testimonia come la vecchia generazione sia stata sempre scettica verso il progetto europeo, mentre la nuova si vedrà sfumare la possibilità di creare una nuova classe dirigente europeista dentro l’Unione Europea.
Molti commentatori hanno ritenuto insensato criticare la scelta degli elettori, ricordando come il popolo sia sovrano, pure lo stesso Mentana ha esclamato: << Quando si da la parola al popolo sovrano se ne accetta il responso >>, e su questo come non essere d’accordo? La democrazia però non è da esaurirsi unicamente nella regola della maggioranza, poiché garantisce anche la libertà di esternare il proprio dissenso verso una scelta ritenuta sbagliata, senza tuttavia metterne in dubbio la legittimità. Sicuramente quest’Unione ha molti deficit, pesano le carenze di rappresentatività democratica colmate malamente da tecnocrati più attenti all’andamento dei mercati che non ai bisogni dei cittadini. Ciononostante, chi volesse cambiarla, invece di abbandonarla, dovrebbe tentare di trasformarla dall’interno.
La riflessione di Benedetta Cirillo
Difficile identificare nell’immediato gli effetti della Brexit: un evento del genere non era mai accaduto durante il percorso europeo. C’è chi parla degli ostacoli per la circolazione di merci, persone e capitali, chi si inquieta per una possibile secessione della Scozia e dell’Irlanda del Nord (entrambe a favore della permanenza, al contrario di Inghilterra e Galles), chi lo fa soprattutto per la futura delocalizzazione di posti di lavoro e banche, chi per un possibile effetto domino, e chi ancora preannuncia le conseguenze dovute al deprezzamento della sterlina.
Ma le parole più ricorrenti a poche ore dal voto, che si impongono con forza ed appaiono più reali che mai, sono quelle di confini, ostacoli e barriere: il fallimento insomma del progetto europeo, o almeno di quello che ne era all’origine. Ad ogni modo la recessione e le rinegoziazioni dei rapporti tra Regno Unito ed Unione Europea prevedono tempi lunghissimi (sicuramente più di due anni).
Le conseguenze istantanee comunque, non sono state delle più allettanti: la sterlina ha raggiunto i minimi storici, Cameron si è dimesso e le Borse sono crollate. Dopo lo shock iniziale poi, è apparso chiaramente che l’UE non sia più in grado di reggere l’ allarmante invecchiamento demografico che caratterizza da decenni la sua popolazione. E gli esiti del referendum parlano chiaro: la Brexit è stata determinata dalla decisione degli over 40, mentre i giovani invece si sono espressi nettamente a favore del “Remain”,soprattutto quelli laureati e quelli tra i 18 e i 24 anni che, per oltre il 72% secondo i dati YouGov, hanno votato in questa direzione; il problema è che gli under 40 in Gran Bretagna sono meno del 30% della popolazione totale.
Le idee tanto care alle “generazioni Erasmus”,che trattano di progresso, di investimenti per il futuro e la ricerca, energie alternative, libera circolazione, scambi culturali, percorsi formativi e lavorativi all’estero, non sono riuscite a persuadere gi adulti che chiedono di fare un passo indietro, tornando ad un passato alquanto diverso rispetto all’attuale condizione socioeconomica.
Tutti d’accordo che l’Unione Europea debba cambiare direzione, mantenendo ciò che di buono è riuscita a garantire finora e abbandonando rapidamente un eccesso di tecnocrazia e di austerità che pesano molto sui cittadini. Incombe l’esigenza di realizzare finalmente una comunità solida, che assicuri la pace e la stretta collaborazione tra gli stati membri, più “umana”e vicina alle persone. Se non si riesce a farlo, in tanti ormai ritengono giusto uscire, rifugiandosi entro i propri confini e ostentando nuovamente un certo patriottismo che può aver funzionato ammirevolmente in passato ma che oggigiorno rappresenta una preoccupante incognita. E intanto tornano a riecheggiare le solite questioni provocatorie: “è giusto che le persone comuni ed ignoranti siano chiamate a decidere su problematiche tanto complesse?”; “è giusto che gli anziani determinino così pesantemente il futuro delle nuove generazioni?”
A tal proposito, si possono accendere discussioni infinite sulla svolta di giovedì scorso, motivando le proprie ragioni a favore o contro l’uscita dall’UE , ma ad ogni modo è incontestabile che la decisione dell’elettorato, espressa attraverso lo strumento di democrazia diretta per antonomasia, debba essere rispettata. La politica, nonostante la crisi che sta attraversando e per quanto possa essere complessa ed ostile delle volte, è in primo luogo di tutti e per tutti i cittadini. Abbandonarsi ad uno scontato élitismo è fin troppo facile dopo risultati del genere e solamente il pensare ad una politica che diventa privilegio di pochi, è pericoloso. Significherebbe negare la sostanza del sacrosanto diritto di cittadinanza a coloro giudicati, non si sa bene da chi e sulla base di quali criteri, troppo“ignoranti”; significherebbe in un certo senso rinnegare la democrazia per andare verso forme di governo e principi diversi se non del tutto opposti: e una tale chiusura mentale preoccupa esattamente quanto l’attuale ripristino di confini, barriere ed ostacoli fisici.
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