Site icon Uni Info News

In difesa dell’articolo 18

L’articolo 18, su cui si è discusso a lungo negli ultimi mesi, è, per la precisione, l’articolo 18 della legge 300/1970, meglio nota come “statuto dei lavoratori”. Il contenuto di tale fonte stabilisce un principio fondamentale del diritto del lavoro italiano: la tutela reale. Questa norma del giuslavorismo italiano sancisce che, nelle imprese con più di 15 dipendenti, qualora venga riconosciuta da un giudice del lavoro l’illegittimità di un licenziamento, si debba procedere con la reintegra del lavoratore e il risarcimento delle retribuzioni che gli sarebbero spettate nel lasso di tempo tra il primo e il secondo termine (in alternativa alla reintegra, il lavoratore può richiedere un risarcimento di 15 mensilità). Si parla qui di reintegra e non di riassunzione perché i due termini hanno significati giuridici diversi: questa prevede che il contratto sia stato legalmente risolto e poi nuovamente stipulato, alle medesime o diverse condizioni del precedente, mentre quella non permette la risoluzione del contratto: giudicando illegittimo il licenziamento, il giudice del lavoro stabilisce che il contratto non è stato risolto e quindi, a tutti gli effetti, il lavoratore è rimasto alle dipendenze del suo titolare anche durante il suo periodo di inattività. Ecco perché il datore di lavoro deve risarcire il dipendente anche con gli stipendi non versati nel periodo tra il licenziamento e la reintegra.

Fatta questa dovuta premessa possiamo giungere agli ultimi episodi di un dibattito che dura ormai da quindici anni e che sembra avviarsi verso una rapida soluzione: l’articolo 18 è effettivamente utile o è solo un inutile vincolo per l’espansione industriale italiana, come molti altri “lacci e lacciuoli” che caratterizzano la nostra economia? Ciò che, ormai da anni, dicono svariati opinionisti di fede liberale e/o confindustriali è che questa norma è innanzitutto inutile, dal momento che riguarda solo il 10% delle imprese italiane (quelle con più di 15 dipendenti), inoltre ritengono che sia un freno alla formazione di grandi industrie, che rimangono divise in ditte sotto i 15 dipendenti, onde evitare i gravosi limiti imposti dall’articolo 18, danneggiando la competitività del panorama industriale italiano in un contesto internazionale.

Una parte, ad oggi minoritaria o comunque più silenziosa, dell’opinione pubblica italiana è invece in disaccordo con quanto detto sopra. Innanzitutto poiché, se questo articolo è così poco rilevante nel nostro mercato del lavoro, dal momento che riguarda un esiguo numero di imprese, non si capisce il forte impegno dei ultimi governi (di destra o di sinistra che siano), appoggiati dagli industriali italiani, nell’assicurare la sua prossima abolizione; infatti va detto che le poche imprese soggette a questa norma occupano circa il 70% dei dipendenti in Italia.

Per quanto riguarda il fenomeno del “nanismo industriale” italiano, si può certamente proporre una spiegazione alternativa a quella dei suddetti opinionisti. Consideriamo, infatti, che i parametri per classificare dimensionalmente le imprese sono essenzialmente tre:
 
  •     Il fatturato, ovvero il totale dei ricavi
  •     Il numero dei dipendenti
  •     Il capitale investito
 
Escludendo il primo punto, che dipende, in linea di massima, dal mercato, è possibile intravedere una leggera correlazione tra gli altri due punti: si può dire molto intuitivamente che più soldi vengono investiti in un’impresa, più dipendenti ci vorranno per far fruttare quegli investimenti. Quindi sono gli investimenti, che generano assunzione e, di conseguenza, espansione dimensionale di un’impresa, con la maggior competitività che ne deriva; ma come vengono reperiti questi capitali dalle imprese? Possiamo distinguere due categorie di capitali: di rischio e di credito. Il primo è quello investito dai soci dell’impresa (anche e soprattutto tramite i mercati finanziari), il secondo è il finanziamento da parte di terzi che prevede un rimborso e una remunerazione predeterminata (ad esempio i prestiti delle banche). Analizzando il contesto microeconomico italiano, si può capire come nel nostro paese la seconda tipologia di capitale prevalga storicamente nel finanziamento delle imprese, a causa di una forte sfiducia generalizzata nei confronti dei mercati finanziari (probabilmente non proprio a torto): infatti la maggior parte delle imprese nostrane non sono quotate in borsa e possono quindi difficilmente reperire capitali di rischio. Il capitale di credito è però, per sua natura, molto più limitato rispetto all’altro (in teoria), questo perché i mercati finanziari possono disporre di risorse tendenzialmente infinite (a causa della molteplicità degli agenti che vi operano), a differenza delle banche. In questo periodo, inoltre, la situazione è peggiorata per l’industria italiana, dato che le banche, in un periodo di crisi come il nostro, sono sempre meno propense a finanziare gli imprenditori, e questi ultimi non riescono a reperire investimenti altrove.

Infine, bisogna considerare un ulteriore aspetto che potrebbe dimostrarsi rilevante, qualora venga seriamente abrogata questa norma: quello della precarietà del lavoro. Con la parola “precarietà” non mi riferisco ovviamente all’accezione tecnica del termine, che sarebbe fuori luogo in questo contesto, bensì ad un significato più esteso: venendo a mancare la tutela reale dei lavoratori, questi ultimi, nel grado di consumatori, potrebbero ragionevolmente ridurre i consumi, al fine di accumulare risparmi per affrontare un futuro sempre più incerto. Ciò sarebbe molto più che negativo, dato che, come confermato a più riprese dalla BCE (la quale sta tentando disperatamente di rimediare senza troppo successo), la nostra crisi è alimentata fortemente dalla crescente depressione dei consumi.

Exit mobile version