Immagine e revenge porn: i fatti di Torino hanno fatto molto discutere e hanno in parte diviso l’opinione pubblica. Cerchiamo di analizzare il fenomeno del Revenge porn partendo da questa domanda: in che modo e perché l’immagine nel revenge porn è una doppia violenza verso chi la subisce?
Oggi il fenomeno del revenge porn sta attirando sempre di più l’attenzione dei media e il dibattito pubblico in Italia. Vorrei aggiungere dunque un piccolo contributo giornalistico inquadrando il problema da una prospettiva diversa, al fine di poter meglio comprendere questo fenomeno. Per perseguire questo scopo vorrei partire dai fatti di Torino apparsi nella cronaca qualche giorno fa, sottolineandone alcuni aspetti che secondo me sono fondamentali.
Il caso, per chi non lo conoscesse ha inizio da una scena già vista troppe volte (purtroppo):
due persone si fidanzano e lei, come avviene normalmente in molte coppie (forse potremo dire la maggioranza?), manda al suo amato delle foto e un video erotici, in cui ha atteggiamenti provocanti.
Il gentil cavaliere del suo ragazzo, dopo la rottura del rapporto, invece di proteggere le immagini di della sua ex ragazza con molta discrezione, le inoltra al gruppo peggiore in cui si può essere discreti in questa materia: il gruppo WhatsApp del calcetto.
Da qui la vicenda inizia a prendere dei risvolti paradossali: si dà il caso che uno di questi compagni del calcetto, dopo aver visionato scrupolosamente e con molta attenzione il materiale riconosca nella donna la maestra di asilo del figlio. Questo allora, senza alcun minimo dubbio sul da farsi, fa vedere il video alla compagna nonché madre del bambino, la quale in tutta risposta, incomprensibilmente sconvolta dall’accaduto, decide di ricattare la ragazza del video per difendere il compagno di calcetto del fidanzato: «Se lo denunci, mando tutto alla dirigente scolastica» e in seguito alla denuncia ai carabinieri da parte della vittima decide di allertare la direttrice dell’Istituto.
La dirigente dall’alto della sua saggezza ed esperienza e forte del suo senso di solidarietà verso il genere di appartenenza, decide di licenziare la maestra, e giusto per infilare il coltello nella piaga, la umilia pubblicamente spiegando il motivo del provvedimento ai genitori e dicendoli: «in questo modo avrà un marchio addosso». Una reazione che si addice molto di più alla santa Inquisizione cattolica nei suoi “tempi d’oro”, che non ad una direttrice di un asilo.
I lettori mi scuseranno dei toni ironici che ho usato per descrivere la vicenda ma il senso di questa scelta sarà chiara dopo aver letto questo articolo.
Adesso entriamo nel mezzo della riflessione, semplificando le molte chiavi di lettura a cui questa vicenda ci apre. Primo punto: cos’è che fa del revenge porn una forma di violazione grave della privacy di una persona?
Introduciamo dunque il concetto di riproducibilità: tutto ha inizio con una videocamera che incasella delle caratteristiche fisiche di una scena in codice binario al fine di poterla riprodurre su qualsiasi supporto in grado di leggere quel linguaggio. Quindi filmando o scattando una foto vogliamo poter ottenere la riproducibilità di una scena X, con i suoi protagonisti annessi. Soltanto una macchina fotografica e un microfono sono in grado di farlo? No, anche con il linguaggio lo facciamo quotidianamente, anzi potremo dire che la riproducibilità della videocamera sta nel convertire le caratteristiche fisiche in linguaggio binario. Dunque, riprendendo il caso da cui siamo partiti: sarebbe stato possibile che l’ex fidanzato negli spogliatoti del calcetto avrebbe potuto limitarsi a descrivere, anche in maniera minuziosa, le pratiche erotiche che lui intratteneva con la ragazza? Avrebbe avuto lo stesso effetto?
Malgrado sia la medesima cosa, cioè una comunicazione che ha la finalità di ricostruire una scena attraverso un linguaggio, l’effetto, sebbene sicuramente lo stesso irrispettoso, avrebbe avuto molto meno peso.
Ma perché un’immagine aggrava la situazione rispetto ad una parola?
Questa sembrerebbe una cosa scontata, ma è a mio avviso da esplicitare: l’immagine pornografica diffusa senza il consenso è infatti una doppia violenza.
La prima violenza è la violazione della privacy, la seconda violenza è offerta dal carattere di verità e di obiettività che è attribuita socialmente all’immagine potremmo dire il primato dell’immagine (in senso lato) nella nostra società. Il mantra è il seguente: viene pubblicato un video dove una persona svolge una pratica erotica? Questa viene identificato/a con quella determinata immagine.
Poco importa che questa sia anche altro nella vita, lei verrà accostato/a all’immagine di quel video.
L’immagine di fatto è in un certo senso una prigione, un vincolo che non esaurisce, ma anzi tende a ridurre la soggettività dell’uomo.
Ma allora perché se l’immagine di per sé è uno stigma (sia in senso positivo o meno) tra fidanzati usa scambiarsi queste immagini?
Come messo in luce ad esempio dallo psicoanalista Massimo Recalcati, il fatto di essere resi oggetti e meri corpi è uno dei presupposti della sessualità. Il sesso, anche se vissuto in una prospettiva affettiva rappresenta il gioco di potersi fare oggetto di una persona, per una persona e fare dell’altra oggetto del proprio godimento. La sessualità, anche se immersa in un rapporto affettivo, ci espone al rischio di essere usati solo come oggetti ed anzi non può prescindere, nella sua base, da questo tipo di rapporto oggettuale.
Questo aspetto della sessualità fa sì che il video e la foto siano dei mezzi di per sé eccitanti proprio in virtù del fatto che in essi la persona si oggettifica; una pratica che potremo assimilare agli amanti che si eccitano osservando loro stessi allo specchio mentre fanno sesso, oppure alle persone a cui piace godere rendendosi oggetto della violenza dell’altro attraverso le pratiche masochistiche.
Il guaio è che la possibilità della riproduzione fa sì che il video o la foto possano essere conservati, e che la semplice immagine sconfini, a causa della sua stessa natura (e per mezzo di un gesto assolutamente irrispettoso), l’intimità della sfera privata una coppia .
Questa possibilità della conservazione dell’immagine e il suo supposto “valore di verità” socialmente attribuito ad essa spinge l’avidità sessuale degli uomini nel collezionare e condividere tali immagini (come se questi stessero conservando nell’armadio tante donne-oggetto diverse) e spesso il materiale viene fornito da ex fidanzati o ex compagni di sesso che si sentono appagati nel ridurre la donna ad oggetto, ad un mero corpo sessuale negando e forse in un certo modo violentando, ogni ombra di legame affettivo che presuppone il riconoscimento dell’altro come soggetto e non come mero oggetto.
Purtroppo il discorso sull’immagine è troppo ampio da approfondire e ci porterebbe ad un altro discorso ancora più ampio sulla nostra società e sull’importanza ad essa attribuita, che potrebbe toccare anche la fenomenologia di disturbi psichici molto invalidanti, come l’anoressia nervosa e la bulimia, fino a portarci a riflettere sul processo “narcisizzante” in atto nella nostra società.
Il valore particolare che svolge l’immagine psicologicamente è testimoniato anche da quello che assume nei riti superstiziosi, ad esempio nei riti vudù, nei quali si pensa che riproducendo l’immagine di una persona si possa influenzarla negativamente, oppure nell’avversione di certi credo religiosi nel rappresentare la divinità, che in quanto soggettività assoluta non può essere ridotta in un immagine, in quanto sarebbe come ridurre un soggetto assoluto in un “Io finito”, per dirlo nella maniera hegeliana, un processo quindi di negazione della stessa natura divina.
Di fatto l’assimilazione della soggettività alla propria immagine è il cuore dell’io secondo il celebre piscoanalista Jaques Lacan, ma ne rappresenta pure la prima mossa alienante (e pure riducente). Per cui anche nella clinica psicologica spesso si lavora nel far sì che la persona possa in parte dis-identificarsi con la propria immagine o quanto meno riuscire a non prenderla troppo sul serio. “Non di sole immagini vive l’uomo”, si potrebbe dire snaturando un motto evangelico, “ma pure ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
Al di là di ogni lotta femminista, seppur giusta e da sostenere, dobbiamo innanzitutto laicizzare questa espressione: “non di sole immagini vive l’uomo” valorizzando al posto dell’immagine la parola. Non possiamo affrontare una guerra contro fenomeni quali il revenge porn o il body shaming battendoci sullo stesso campo di battaglia delle immagini. Dobbiamo combattere questa guerra spostandoci sulla parola, definire l’ascolto della parola dell’altro come l’unico modo per entrare in relazione con una qualsiasi persona, con una soggettività, che sia tale, e non con un oggetto identificato nelle immagini e nei video imbarazzanti che circolano su di questa (spesso illegittimamente), e che la rendono nient’altro che un mero oggetto.
Dicevo che questa lotta non è solo femminista. No, perché come ho messo in evidenza all’inizio, a volte sono le donne che si fanno portavoce di un pensiero stigmatizzante verso loro stesse, ce lo riferiscono le parole della direttrice dell’asilo in un modo incredibilmente evidente quando dice pubblicamente ai genitori dell’asilo: «in questo modo avrà un marchio addosso».
Il pubblico spesso si dimostra sia perbenista che perverso, ed insiste però nel difendere perbenisticamente l’immagine pubblica, oltremodo curata nella nostra società e nel puntare il dito verso chi non sottostà agli stereotipi che impone la vita pubblica. Stereotipi tra cui troviamo primo tra tutti quello per cui una donna di cui è stata mostrata la propria sessualità e il proprio desiderio di godere è una troia ed è indecente anche se le immagini le sono state sottratte illegittimamente, strappate dalla sua sfera intima. Così un buon modo per rendere inoffensive queste narrazioni voyeuristiche, e per cercare di ridurre il senso di vergogna delle tante vittime della pubblica gogna, al di là ovviamente di ricorrere alla legge, è proprio fare come è stato fatto all’inizio dell’articolo, cioè mostrare con le parole, ridicolizzando, il, già in realtà, ridicolo spettacolo del mondo perbenistico (e in realtà perverso) che in modo sadico, per usare una metafora Pasoliniana, fa pubblicamente mangiare la merda a donne come questa maestra d’asilo.
Infatti, dovremmo cercare di mettere in evidenza due punti chiave: in primo luogo che ogni immagine in realtà è inserita in un discorso implicito che deve essere combattuto, discorso che non è solo condiviso dai singoli soggetti, ma che abita una dimensione più o meno inconscia di tutta la società.
Infine dobbiamo cercare attraverso il potere allusivo della parola, di ricordare a tutti che ognuno di noi, seguendo la logica dello stigma incarnato nella visione delle donne e degli uomini della vicenda di Torino, venendo ripreso nel proprio intimo potrebbe essere, allo stesso modo, “smerdato”.