Una gremita Sala “Titta Ruffo” del Teatro Verdi di Pisa ha accolto, ieri sera, l’opera di Alessandro Scarlatti Il Trionfo dell’Onore. Se non avete mai sentito questo titolo, tranquillizzatevi perché si tratta di un’opera rarissima, che viene eseguita assai di rado. È questo che ha suscitato un certo stupore: vedere una sala affollata da un pubblico che, pur non conoscendo l’opera, ha comunque accettato la “sfida” del Vedi ed ha deciso di cimentarsi con un repertorio inusuale come quello dell’opera barocca.
È bene precisare fin da subito che si tratta di un’opera comica, forse la prima opera comica con un libretto totalmente in italiano (prima del Trionfo era uso comune ricorrere al dialetto napoletano per le commedie o, come venivano chiamate all’epoca, Farse). Non si tratta di un capolavoro, come molti si ostinano a sostenere, ma non ha neanche la pretesa d’esserlo. Ascoltando l’opera si percepisce chiaramente che l’intento di Scarlatti e del librettista Tullio era quello di scrivere un’operina leggera, di puro intrattenimento e lo si evince dal fatto che Scarlatti abbia puntato molto sul carattere brillante delle arie e non sulla varietà, difatti tendono ad essere piuttosto ripetitive. Questo non significa, badate bene, che si tratta di un’opera di semplice esecuzione e dalla scrittura poco curata, tutt’altro: questo aspetto preponderantemente brillante è molto difficile da rendere, sia per l’orchestra che per i cantanti. Come era solito ripetere Vittorio De Sica, è più facile far piangere che far ridere. Senza contare che il duetto che chiude il primo atto (Or via dameggia) ed i quartetti degli Atti II e III sono, compositivamente parlando, degli autentici capolavori. La trama è stata ricavata da quella dell’Ingannatore di Siviglia e il Convitato di Pietra di Tirso de Molina (che sarà la base del celeberrimo Don Giovanni di Mozart), un po’ alleggerita ed eccezionalmente ambientata a Pisa. La trama è ricca di intrecci amorosi e si conclude con l’incredibile ravvedimento di Riccardo (il corrispettivo di Don Giovanni), a seguito del quale tutti i personaggi cantano la morale, com’era uso nell’opera buffa: Applaudiam con lieto grido al Trionfo dell’onor. Sempre un cor, costante e fido, gode e giubila in amor.
Subito prima dell’inizio della rappresentazione ci si è resi conto che la partitura di Scarlatti è stata profondamente manipolata: da tre atti si è passati a due (gli Atti II e III sono stati accorpati), i recitativi sono stati tagliati con l’accetta ed alcuni numeri musicali siano stati eliminati. Si fosse trattato di un’opera di moderna concezione, come quelle di Verdi o di Mozart, questo sarebbe stato un errore a dir poco imperdonabile; tuttavia, come si è già detto sopra e come illustrerò in modo approfondito a breve, il Trionfo è un’opera di puro intrattenimento, una burletta. Lo spettatore che va a teatro per assistere ad un’opera di questo tipo deve andarci con la disposizione d’animo di divertirsi per un paio d’ore. Intrattenimento di qualità, indubbiamente, ma resta sempre uno spettacolo comico: lo stesso Scarlatti ce lo fa capire chiaramente dal tono volutamente frivolo della composizione, dal tono del libretto, inaspettatamente salace per un’opera del 1718 (espressioni come infinocchiare, porcaccio, vecchio come il cucco non erano previste dal bon ton dell’epoca, così come il nome della fidanzata di Flaminio, Cornelia, indica palesemente che il buon Flaminio non aspetta altro che metterle le corna con Rosina) e dal fatto che c’è un curioso scambio di ruoli: Riccardo dev’essere interpretato da una donna, Cornelia e Rosina da due uomini (contraltisti). Questo aspetto giocoso è rimasto nei costumi degli interpreti, ridicolmente variopinti.
Altra sorpresa, invece del consueto palco posto in fondo ad una sala, il palcoscenico della rappresentazione era costituito da due pedane intersecate a forma di croce, inoltre il grosso del pubblico e dell’orchestra erano posti frontalmente, il resto era sparso all’interno degli altri tre angoli descritti dai bracci della croce. Se lo spettacolo non vi sembra abbastanza non-convenzionale, aggiungo che – per ovvi motivi – la scenografia era totalmente assente, unico elemento accessorio il disegno luci. Una scena, insomma, che ricorda molto le versioni più scarne degli spettacoli kabuki giapponesi, dove il palco è un grosso tavolo su cui gli attori coinvolti in ogni scena salgono, recitano il proprio pezzo e poi se ne vanno; così è stato ieri sera: gli otto personaggi se ne stavano alle estremità della croce, due per parte, e quando venivano coinvolti in una scena o in un’aria si alzavano per poi tornare al proprio posto.
Questa scelta del regista Mario Setti non mi è dispiaciuta: è vero che distrugge completamente le intenzioni di Scarlatti, non ha alcun legame con l’opera ed elimina ogni parvenza di drammaturgia, ma l’ho trovato piacevole ed interessante per alcuni motivi. Innanzitutto l’assenza di un qualsiasi oggetto sulla scena (ad esclusione di qualche sedia e di un paio di ombrelli) ha spinto il pubblico ad utilizzare la propria immaginazione per contestualizzare meglio l’azione e soprattutto ha mostrato che cos’era inizialmente l’opera buffa italiana. Scarnificando in questo modo i recitativi, chilometrici nell’originale e brevissimi nella versione proposta, si è dimostrato palesemente che l’opera era solamente un’insieme di arie, duetti e quartetti tenuti assieme da una cornice narrativa, un po’ come accade nel Decamerone di Boccaccio: i numeri musicali sono quasi del tutto scollegati rispetto al testo drammaturgico, che è solo un pretesto per portarli in scena. Per questo le molte libertà rispetto al testo di Scarlatti sono, tutt’al più, un peccato veniale.
Il cast era di ottimo livello, da segnalare le interpretazioni di Maria Costanza Nocentini (Riccardo Albenori), Floriano D’Auria (Rosina Caruccia), Andrea Sari (Rodimarte Bombarda), Francesco Ghelardini (Cornelia Buffacci) e Laura Andreini (Doralice Rossetti); in particolar modo ho sinceramente apprezzato la vis comica di di D’Auria – eccezionale nel ruolo della serva – e di Sari, nonché la sua possente voce baritonale. Senza contare l’eccellente presenza scenica della Nocentini. Nel corso dello spettacolo mi sono rammaricato più volte che il suo personaggio avesse poche scene perché è davvero un piacere vederla sul palco, soprattutto per la sua bravura di cantante.
Buona anche la prestazione dell’Ensemble San Felice, ma non sempre ottima: ci sono stati alcuni inconvenienti circa l’intonazione nei violini ed in alcuni passi (due nell’Atto I ed uno nell’Atto III) si è percepito distintamente che gli strumenti non erano ben amalgamati, probabilmente a causa dell’anomala disposizione degli strumenti e della direzione di Federico Bardazzi, talvolta confusionaria ed assai poco chiara. Cionondimeno, la rappresentazione è stata senza dubbio un successo di pubblico e, sebbene l’allestimento non mi abbia convinto del tutto, l’ho trovato intelligente e soprattutto coraggioso. Speriamo che anche le prossime opere da camera della Stagione dimostrino lo stesso coraggio e la stessa qualità.
Il prossimo appuntamento con la rassegna cameristica del Teatro Verdi sarà il 18 novembre con il dramma con musiche Don Giovanni e Faust di Christian Dietrich Grabbe.
Photocredit: Lara Fiorillo
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