Sant’Agata de’ Goti, provincia di Benevento, anni ’70. Precisamente 1973.
Nelle campagne dell’antica Saticula un personaggio, un contadino della zona (non una banda organizzata, non un “professionista” dell’arte dell’usare violenza verso il Patrimonio artistico del nostro Paese) trova nelle sue terre un bellissimo vaso in una tomba sannitica.
Apprezzò molto questo oggetto e la sua bellezza, tanto da farsi fotografare con esso.
Almeno inizialmente.
Passa qualche anno e il signore, con vicende molto poco chiare, riuscì a contattare un antiquario a cui presentò questo cratere (un vaso che serviva a mescolare il vino con le varie spezie, secondo il rituale del simposio greco) e probabilmente amò ancora di più quest’opera quando riuscì a venderla per un milione di vecchie lire e, pare, un maialino.
E, con grande amore per l’arte, la storia e per la salvaguardia e la valorizzazione del territorio, il caro antiquario pensò bene di concludere quello che, con molta probabilità, fu il più grande affare della sua vita.
Nientemeno che con il Paul Getty Museum di Malibu, nel 1981, che lo acquistò per la cifra di 380.000 dollari.
Il vaso finì in California, con altrettanta premura, da parte dei dirigenti del museo, per questo che rappresenta un tassello importante dell’antica storia del Sannio e dell’arte magnogreca.
Questa, che sembra una storia inventata, un buono spunto per un “poliziesco archeologico” purtroppo è la triste (fino a questo punto del racconto) verità.
In tutti i romanzi ci sono personaggi buoni e talvolta, per fortuna, anche nella vita reale accade che l’antagonista o gli antagonisti vengano sconfitti da quella che Manzoni chiamerebbe “Provvidenza”.
La Provvidenza del nostro racconto ha un nome diverso, si chiama Comando dei Carabinieri Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, che nel 2007, dopo lunghe e accurate indagini, sono riusciti a ricostruire la storia del vaso (anche grazie alla foto scattata dal contadino) e a ottenerne la restituzione per essere esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum.
L’opera
Il vaso è un cratere a calice decorato a figure rosse, alto più di 70 cm e con un diametro di 60 cm, che poggia su un piede a tromba rovesciata collegata al vaso da un echino molto pronunciato.
Deve il suo nome,” Cratere con ratto di Europa”, dalla scena raffigurata sul lato principale. Il mito narra di una bellissima fanciulla, Europa, figlia del re fenicio Agenore e di Telefassa, che spesso si recava con amiche e ancelle sulle rive del mare; un giorno Zeus la vide dall’alto e se ne innamorò perdutamente. Allora decise di scendere sulla terra e, per non terrorizzare la fanciulla, prese le sembianze di un bellissimo toro bianco e cominciò a pascolare vicino alla giovane, la quale, attratta dall’eleganza dell’animale e vedendolo mansueto, prese ad accarezzarlo, finché, quasi per gioco, gli salì in groppa; allora il toro si mise a correre all’impazzata verso il mare e una volta raggiunte le rive riuscì a galoppare sopra l’acqua, finché giunse sull’isola di Creta, si fermò all’ombra di un albero e, riprese le sue vere sembianze, Zeus si unì alla giovane Europa, che così generò Minosse, Radamanto e Sarpedonte.
Sul cratere in modo particolarissimo è raffigurata una fanciulla dai lunghi capelli sciolti, Europa appunto, dalla veste riccamente ricamata come richiede il suo rango, che con la mano sinistra trattiene il velo, mosso dal vento e con l’altra si aggrappa al corno del toro sovradipinto di bianco, sotto le cui zampe stanno Scilla e Tritone insieme a pesci e ad animali marini, che rappresentano metaforicamente il mare che Zeus sta attraversando. Sulla testa di Europa vola un erote, Pothos, il desiderio erotico, base fondamentale di tutta la vicenda mitica, che sparge profumi con un ramo da una coppetta che porta in mano.
In alto ai lati vi sono due scomparti, ognuno raffigurante tre personaggi: a sinistra Zeus (in forma antropomorfa), la personificazione di Creta e Hermes, che forse rappresentano il momento successivo al rapimento, quando il viaggio è terminato (e questo spiegherebbe la figura di Hermes, protettore dei viaggiatori), Zeus è giunto a Creta e ha ormai assunto le sue sembianze; a destra vi sono invece Eros, Adone e Afrodite, figure che in vario modo indicano l’amore.
Il toro, pur procedendo verso sinistra, ha lo sguardo rivolto verso lo spettatore, mentre Europa guarda davanti a sé, non si volge indietro a cercare aiuto, è ormai sedotta dal dio, e il suo sguardo è rivolto verso Creta, che si affaccia dal riquadro davanti a lei, riccamente abbigliata e ingioiellata, a indicare metaforicamente il futuro di regina che aspetta la giovane.
La scena è racchiusa all’interno di una fascetta di forma grossomodo pentagonale risparmiata dalla verniciatura e le figure sono facilmente riconoscibili dai nomi graffiti accanto dopo la cottura.
Il vaso purtroppo è conosciuto isolato dal contesto originale da cui proveniva, ovvero una necropoli sannitica, ma comunque ci offre spunti di riflessione molto importanti: primo fra tutti la firma che porta, quella di un importantissimo ceramografo pestano di IV secolo a.C, Assteas, di cui si conoscono altre opere che portano la sua firma oltre a numerosi altri vasi attribuiti a lui o alla sua officina, in un arco di tempo che va dal V al III a.C, ovvero prima, durante e dopo il periodo in cui Assteas stesso ha operato, opere conservate in numerosi musei in tutto il mondo e soprattutto nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum.
Dal 18 dicembre 2014 il vaso è tornato a Sant’Agata de’ Goti, per una mostra di 6 mesi, ovvero fino al 17 maggio 2015, all’interno della Chiesa di San Francesco, dal nome “L’oggetto del desiderio. Europa torna a Sant’Agata”: l’iniziativa è stata possibile grazie alla collaborazione tra la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta e il Comune di Sant’Agata de’ Goti.
Questa esposizione rappresenta il primo passo verso il coronamento definitivo di un desiderio a lungo espresso, quello di vedere finalmente nel suo luogo di ritrovamento la meravigliosa opera d’arte: infatti alla fine della mostra il vaso sarà trasferito definitivamente all’interno del Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino e di Montesarchio, davvero un motivo di gioia per il territorio, che vede finalmente tornare un pezzo importante della sua storia.