Lo scorso sabato – 15 ottobre – il Teatro Verdi di Pisa ha aperto le porte per l’inizio della Stagione Lirica, accogliendo il pubblico con la consueta cordialità e cortesia. Non sono mancati gli interventi di tre importanti figure istituzionali del teatro e della città di Pisa a ricevere gli spettatori in attesa del levarsi del sipario: il presidente della Fondazione Teatro di Pisa Giuseppe Toscano, il sindaco di Pisa Marco Filippeschi e il direttore artistico della Stagione Lirica Marcello Lippi. Ognuno di loro non ha mancato di sottolineare come il Teatro Verdi costituisca un importante punto di riferimento per la vita culturale della città e come questo fattore assuma una grande rilevanza visto alla luce dell’ottima risposta da parte del pubblico di questi anni, soprattutto per il numero di abbonamenti che ogni anno registra un significativo incremento. Dopo queste brevi introduzioni, le parole hanno lasciato il posto alla musica di Giuseppe Verdi e il sipario si è aperto su uno dei titoli più amati dal pubblico: Rigoletto.
Lo spettacolo è stato certamente interessante e di ottima qualità, dalla regia, alla direzione, alle varie interpretazioni ma alcune scelte arbitrarie hanno condizionato il risultato finale. La regia di Federico Bertolani era esteticamente formidabile: una pulizia cromatica e di linea davvero seducente e di grande eleganza, per non parlare del continuo muoversi di pannelli mobili – che ora rappresentavano un vicolo di Mantova, ora la casa di Rigoletto, ora la locanda di Spafarucile – davvero suggestivo e affascinante a vedersi. Particolarmente felice anche la scena della tempesta, in cui Bertolani ha saputo cogliere lo spirito di questo temporale nella Bassa padana e trasmetterlo agli spettatori con un pathos e una verosimiglianza assolutamente affascinanti. Personalmente amo molto gli allestimenti tradizionali, ma anche quelli contemporanei sono da incoraggiare e applaudire quando sono animati da gusto e intelligenza come quello in questione. Cionondimeno, alcune soluzioni erano assolutamente evitabili, come la scelta di mandare in scena un Rigoletto senza gobba… che per colmo dell’assurdità dice d’essere «difforme» e viene continuamente definito «gobbo» dagli altri personaggi. La regia non può muoversi in una direzione diversa da quella del libretto ma seguirlo. Allo stesso modo, Bertolani ha arbitrariamente rimosso il momento chiave in cui il Duca di Mantova entra in casa di Rigoletto e lancia una borsa di denaro a Giovanna, la custode di Gilda, per assicurarsi il suo silenzio (cito testualmente dalla partitura di Verdi: «[Rigoletto] Apre la porta della corte e, mentre esce a guardar sulla strada, il Duca guizza furtivo nella corte e si nasconde dietro l’albero; gettando a Giovanna una borsa la fa tacere»), quindi quel che accade immediatamente dopo nella scena risulta incomprensibile per lo spettatore che non conosce l’opera, così come lo scambio di battute tra Rigoletto e Giovanna:
R: Se talor qui picchian guardatevi d’aprire
G: Nemmeno al Duca?
Inoltre mi è sembrato che in alcuni casi la regia abbia messo in difficoltà i cantanti, ad esempio con l’inspiegabile volontà di far girare spesso e volentieri il coro di spalle rispetto a chi canta. Infine, tutta la rappresentazione era troppo “abbottonata” per essere un Rigoletto. Un simile contegno emotivo si confà maggiormente ad opere più austere, come Macbeth o Simon Boccanegra, ma Rigoletto necessita di maggior carica emotiva per poter arrivare allo spettatore in tutta la sua efficacia.
Gli interpreti erano tutti di ottima levatura, dal primo all’ultimo e senza eccezioni, e ognuno ha saputo fornire un contributo di assoluta (e positiva) rilevanza al risultato complessivo. Avendo avuto il piacere di ascoltarlo lo scorso anno nel ruolo di Simone Boccanegra, avevo alte aspettative verso l’ottimo baritono Elia Fabbian. La preparazione tecnica del M° Fabbian è più che solida e al di sopra di qualsiasi giudizio, tuttavia il suo Rigoletto è rimasto troppo freddo, poco partecipe al livello patetico dell’opera (nel senso del pathos). Forse il personaggio non è nelle sue corde ed è in grado di fornire migliori performances con ruoli più introspettivi, come il già citato Simone Boccanegra. Naturalmente il suo Rigoletto è stato ineccepibile nell’esecuzione (a parte una piccola défaillance nell’Atto II), però mancava quel quid che invece ha saputo dare in quel Simon Boccanegra che ricordo ancora con viva emozione.
Molto interessante la vocalità del tenore Roberto Iuliano: nonostante non abbia le physique du role per interpretare un aitante Duca di Mantova, ha saputo conferire molte sfumature alla propria intonazione, soprattutto nelle regioni acute (notoriamente ardue nel piano). Il suo Duca è uno sfacciato e impenitente libertino, però con un gusto fin troppo marcato per le puntature, e con un controllo del ritmo non sempre efficace (cosa che l’ha portato ad andare fuori tempo di quasi una battuta intera nel breve intervento che immediatamente precede il coro Scorrendo uniti remota via).
Dominatrice incontrastata della serata Ekaterina Sadovnikova, un giovane soprano russo dal timbro amabilmente sottile e morbido, di una purezza eburnea e di una meravigliosa duttilità. Ha dimostrato grande intelligenza nella gestione degli acuti, arrivandoci con grazia e leggerezza. Solitamente i soprani leggeri hanno il riprovevole vizio di strillare quando si avviano alla soglia del registro acuto, ma il M° Sadovnikova è riuscita ad addolcirli in modo assolutamente mirabile, in particolar modo nelle varie coloriture della celebre aria Caro nome che il mio cor. Insomma, ha trovato il modo di infondere al proprio canto la personalità di Gilda.
Ottimo anche Ivan Marino nel ruolo del solenne e terribile Conte di Monterone, dotato di una voce sorprendentemente scura e pastosa che fa pensare più a un basso che a un baritono quale egli è. Molto buoni anche il basso Antonio Di Matteo e il mezzosoprano Sofia Janelidze, rispettivamente nei ruoli di Sparafucile e Maddalena. L’unica osservazione riguardo la loro prestazione è relativa alla tempesta dell’Atto III, innanzitutto perché l’amalgama del trio Sparafucile-Maddalena-Gilda risultava assai poco omogeneo, in secondo luogo perché Sparafucile è entrato in anticipo di mezza battuta alle parole «Se prima ch’abbia il mezzo». L’incidente è subito rientrato, ma solamente grazie al sangue freddo di Di Matteo che ha saputo fermarsi, cogliere l’indicazione del M° Fratta e reinserirsi correttamente nel flusso musicale.
Molto valida la direzione del M° Gianna Fratta, che ha palesemente posto l’accento sull’interpretazione del testo musicale, ma in certi frangenti questa scelta è risultata piuttosto macchinosa perché ha rallentato l’azione scenica (un po’ troppo lunghi certi silenzi che hanno perso la loro efficacia) e ha, per così dire, raffreddato gli animi.
Resta da affrontare – seppur con riluttanza – un problema fondamentale: la partitura. Durante tutta la rappresentazione, sul palco e in buca, non c’è stato il rispetto della partitura di Giuseppe Verdi perché sono state eseguite tutte le puntature che si fanno “per tradizione” ma che Verdi non voleva assolutamente e questo siamo in grado di affermarlo non solo perché non le ha scritte ma anche perché in una lettera disse chiaramente: «[La creazione da parte di cantanti e direttori] è un principio che condusse al barocco e al falso l’arte musicale alla fine del secolo passato e nei primi anni fi questo quando in cantanti si permettevano di creare le loro parti e farci di conseguenza ogni sorta di pasticci e controsensi. No: io voglio un solo creatore e mi accontento che si eseguisca semplicemente ed esattamente quello che è scritto. Il male sta nel fatto che non si eseguisce mai quello che è scritto. […] Io non ammetto né ai cantanti né ai direttori la facoltà di creare che come dissi prima è un principio che conduce all’abisso. […] Le mie note, belle o brutte che sieno, non le scrivo a caso, e procuro sempre di darne un carattere».
Le modifiche alla partitura sono state innumerevoli e di varia natura. Per non fare che degli esempi: per tutta la durata della festa nel palazzo del Duca di Mantova, alla banda sono stati aggiunti i timpani quando Verdi in partitura scrive «senza Gr. Cassa» (questa parte musicale è affidata a una banda che suona dietro il palco, in questo caso le funzioni della banda sono state espletate dall’orchestra in buca), cosa che ha appesantito notevolmente l’esecuzione e ha sciupato diversi espedienti musicali, come quei «Sì, vendetta» che sfociano nell’esplosione di «Tutto è gioia, tutto è festa, tutto invitaci a goder»; il Duca ha intonato le tre puntature tanto tradizionali quanto brutte e di cattivo effetto scenico (all’interno di Questa o quella, Parmi veder le lagrime e La donna è mobile), l’orribile puntatura di Rigoletto al termine del famoso Pari siamo, dove alle parole «Ah no, è follia», il baritono si impenna sul sol, piuttosto che andare al mi naturale. Questo errore è particolarmente grave per almeno tre buoni motivi: il mi naturale rappresenta la nota di Gilda, infatti subito dopo abbiamo il duetto tra Gilda e Rigoletto, l’acuto in forte sciupa il prorompente incipit orchestrale del duetto (e drammaturgicamente non ha senso), infine se si intona il sol si va a creare un accordo di quarta e sesta, armonicamente piuttosto banale, mentre se si rispetta il mi naturale di Verdi ha luogo un accordo di tredicesima, molto più interessante. A proposito di puntature, non poteva mancare quella alla fine del celebre duetto Sì, vendetta, tremenda vendetta. Il problema di tutti questi acuti non scritti è che costituiscono continue fermate nel flusso musicale di un dramma che dovrebbe essere ininterrotto, concepito quasi wagnerianamente. Difatti lo stesso Verdi ebbe a scrivere in una lettera del 1851: «Ho ideato il Rigoletto senza arie, senza finali, come una filza interminabile di duetti, perché così ero convinto. Se qualcuno aggiunge: “Ma qui si poteva far questo, ma qui si poteva far quello” io rispondo: sarà benissimo, ma io non ho saputo far meglio».
Sono avvenute altre modifiche non condivisibili (come il taglio nella cabaletta tra il Duca e Gilda o il portamento tra il do naturale di «No, vecchio t’inganni… un vindice avrai!» e il la bemolle del Sì, vendetta, che sciupa la modulazione per transizione di Verdi), ma ce ne sono state alcune in particolare che meritano attenzione, quelle apportate da Ekaterina Sadovnikova e precisamente alla battuta 31 del recitativo tra Gilda e Giovanna che precede il duetto col Duca, alle parole «Sognando vigile» e alla battuta 32 dell’aria Caro nome che il mio cor. Ebbene qua il soprano ha apportato un «effettistico cambio di ritmo» che però sappiamo con certezza essere ammesso da Verdi. A proposito del baritono Morer, Verdi ebbe a dire che «[ha apportato] un effettistico cambio di ritmo senza cambiare una parola od una nota nella prima frase di Sì, vendetta», ed è esattamente quando ha fatto la Sadovnikova, che merita un altro e ben meritato applauso.
In conclusione lo spettacolo è stato di alta qualità e di sicuro effetto per il pubblico, ma data la bravura dei Maestri coinvolti, del direttore e dell’orchestra, questa poteva essere un’ottima occasione per portare in scena il “vero” Rigoletto di Giuseppe Verdi. Come si dimostrano umiltà e rispetto alle partiture di Mozart, di Puccini, di Wagner, di Schubert, di Strauss, così si deve portare rispetto al lavoro di Giuseppe Verdi.
Luca Fialdini
luca.fialdini@uninfonews.it
Photocredit: Massimo D’Amato (Firenze)
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