“[…] Un futile incidente provocò un orrendo massacro fra i coloni di Nocera e quelli di Pompei: avvenne durante un combattimento di gladiatori dato da Livinèio Règolo.”
Mentre assistevo a quel vergognoso (a mio modesto parere, s’intende) spettacolo che ha preceduto la finale di Coppa Italia, su cui non mi soffermo oltre, non ho potuto che pensare a un affresco. Già, non ho scritto male, un affresco.
A quelle scene, alquanto inquietanti direi, si è sovrapposta l’immagine che un artista del I secolo d.C. dipinse all’interno della casa di Actius Anicetus, detta appunto Casa della Rissa dell’Anfiteatro, a Pompei. La vicenda è raccontata da Tacito: nel 59 d.C. scoppiò un tumulto a Pompei, durante i giochi gladiatori, tra Pompeiani e Nocerini. “Come avviene di solito nei piccoli centri”, dice l’autore, si cominciò con parole pesanti, lanci di pietre, e si finì col giungere alle armi. I Pompeiani ebbero la meglio, mentre molti Nocerini vennero feriti gravemente o uccisi.Nerone portò la discussione in Senato, che deliberò la chiusura dell’anfiteatro pompeiano per dieci anni (provvedimento poi revocato dopo il terremoto del 62 d.C.) mentre il senatore Livineio Regolo, l’ organizzatore dei giochi, e gli altri incitatori della rissa vennero esiliati.
Si tratta di un affresco in IV stile pompeiano, quello cioè che ritrae non più solo riquadri a imitazione di lastre marmoree, paesaggi o architetture, ma che riproduce delle scene, e in particolare scene di ispirazione storico-locale, in accordo con la tradizione italica. Faceva parte di
un fregio con combattimenti gladiatorii, e quello che colpisce già al primo sguardo è l’estremo realismo, e l’attenzione ai particolari, che ricordano molto da vicino i bassorilievi delle colonne coclidi di Roma e delle pitture trionfali di cui non abbiamo che riproduzioni.
Nella parte inferiore ci sono le bancarelle dei venditori ambulanti e degli alberi che offrono riparo a delle donne che passeggiano. Al centro è l’anfiteatro, il cui prospetto è realizzato con precisione e realismo assoluto, con in primo piano le due rampe di accesso alla summa cavea e le arcate degli ambulacri. Si vedono poi, grazie alla prospettiva detta a volo d’uccello tipica dell’arte plebea di età imperiale, l’interno, con i combattenti nell’arena e sulle “gradinate” della cavea, e sopra il velarium, appoggiato alle due torri delle mura sullo sfondo. Nell’arte romana di ispirazione italica e cosiddetta plebea infatti, tutto deve essere rappresentato ma non nuocere alla leggibilità della scena. A destra è la palestra, di cui si vedono sia l’esterno che l’interno con la grande natatio, la piscina; fra la palestra e l’anfiteatro e intorno a questo si svolge la rissa, che ormai si è spostata in città dall’interno dell’anfiteatro. Per rappresentare gli scontri, l’artista ritrae caduti a terra col braccio alzato a coprirsi il volto, alcuni che scappano con le braccia levate, altri che si affrontano nel corpo a corpo. Sul muro della palestra si leggeva al momento del rinvenimento: “D. Lucretio fel(i)citer” in caratteri romani e “Satri(o) Oualenti O(g)ousto Ner(oni) phelikit(er)” in lettere greche, probabilmente due finanziatori di spettacoli.
Insomma, panem et circenses, dicevano, e il popolo starà tranquillo. Ma quale popolo, i romani o noi? E pensando agli eventi di ieri sera, direi che la storia si ripete: passano i secoli, ma le cattive abitudini restano, solo che a volte vengono punite in modo severo e intransigente, altre invece vedono decisioni differenti e non molto rigorose.
Giulia Bertolini