La stagione di prosa del teatro Goldoni di Livorno prosegue con un altro appuntamento di rilievo, la cui genesi scaturisce direttamente dalla letteratura francese dell’Ottocento: I Miserabili. Andato in scena lo scorso martedì 19 marzo, lo spettacolo teatrale, tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, definito da Eco maestro dell’eccesso, arriva sul palcoscenico dietro una rielaborazione del testo a cura di Luca Doninelli, il quale si è cimentato nella titanica impresa di trasformare questo masterpiece letterario in una pièce in due atti di due ore e quarantacinque minuti. Il suo Miserabili, per la regia di Franco Però, è il dramma universale degli opposti e della morale, del giusto contro lo sbagliato, dei fatti contro le leggi, dell’odio contro l’amore e della tirannide contro la libertà. Un insieme di elementi calibrati a dovere dove ad avere la meglio sono quei tratti cristiani che si insinuano nei dialoghi fin dalla prima parte, nell’incontro con Jean Valjean e il vescovo Myriel, dove i gesti hanno un peso radicato nell’animo dei personaggi. Tra questa rosa di uomini e donne, di miserabili, si alimentano le fiamme della rivoluzione, del caos e della cupidigia, così I Miserabili è il dramma della duplicità, dove ogni personaggio trova il suo alter ego in una stretta correlazione di intenti, eventi, intrecci, drammi e sentimenti continuamente messi in gioco dal fato.
I moti rivoluzionari fanno da sfondo all’intera vicenda ma la regia di Però ne esalta comunque l’estetica e la tragedia umana, la sceneggiatura infatti vira proprio su gli uomini e quelle osservazioni crude e fredde, ma al contempo universali ed eterne che segnano Valjean, Javert e gli altri personaggi. Se, tuttavia, la maggior parte degli attori sono l’incarnazione di un preciso sentimento, è nella figura di Javert che si avverte quella collisione e rottura di ideali che lo porterà al suicidio. Il suo atto, nel finale dell’opera, è il risultato della frattura definitiva di un paradigma morale a cui si affida ciecamente che da un lato risponde al nome di legge umana e dall’altro a burocrazia. Per Javert la vita si basa sul rispetto della legge e delle norme giuridiche, senza spazio per i sentimenti e le mille sfaccettature dell’esistenza umana, ma l’umanità dimostratagli da Jean Valjean, farà vacillare tutte le sue certezze portandolo inevitabilmente alla morte.
Così, cieco al pentimento, cieco alla carità e sordo alle suppliche, cadrà infine nell’atto di libertà di cui è protagonista per mano di colui a cui ha dato la caccia per anni: l’ex galeotto pentito Jean Valjean. Una rappresentazione teatrale molto cupa dai toni freddi e metallici, dove i giochi di luce hanno una sfumatura quasi caravaggiesca per l’esaltazione dei chiaro-scuri, affiancata da una scenografia essenziale e minimalista, ma funzionale all’opera, che si anima e prende vita grazie alla bravura generale del cast. Il Jean Valjean di Branciaroli è statuario ed imponente, e l’attore fa di lui un monolite su cui gli altri ruotano attorno, proprio perché nella recitazione di Franco Branciaroli è l’intonazione della voce ad essere messa in rilievo ed il suo Valjean si pone al pubblico come un uomo saldamente ancorato alla sua postura. Un esperimento che è difficile da apprezzare appieno proprio per il talento di un attore d’esperienza che fa particolarmente perno, nella sua recitazione, su quei mutamenti di voce che lo contraddistinguono sulla scena italiana. Il suo Jean Valjean è però un uomo che non sembra mai vinto dai sentimenti, dalla paura, dall’amore, è tenebroso e inquieto ma non lo dà a vedere in maniera eccessiva perdendo quel fascino che, con un cast così eterogeneo, avrebbe dovuto far di lui un magnete agli occhi della platea. Un’opera teatrale complessa e molto forte che non può non turbare gli animi degli spettatori in sala, per questo ne consiglio a tutti la visione, per approfondire uno spaccato di vita parigina ottocentesca che per i drammi in questione risulta essere ancora attuale.
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