Come già accaduto in passato, la Redazione di Uni Info News ha deciso di unirsi in un articolo a più mani sui recenti fatti di Parigi.
Ecco le nostre opinioni:
A qualche giorno dai fatti di Parigi, dopo il terrore, lo smarrimento, il cordoglio, resta una domanda a cui dobbiamo rispondere: cosa facciamo adesso? E’ il quesito che si pone sotto gli occhi degli aggrediti, delle vittime, che siano individui o intere nazioni, in quei rari momenti in cui la loro stessa esistenza è messa in pericolo. Stavolta, ad essere minacciata è la nostra civiltà, la nostra unità ed il nostro futuro. Cosa facciamo adesso? Con ciò non intendo quale debba essere la prossima mossa da compiere, quale ad esempio i bombardamenti sulla roccaforte di Raqqa da parte dei francesi. Intendo, in un’ottica più ampia, quale debba essere la nostra strategia. E’ il momento di riflettere, sui nostri obiettivi e su quale percorso dovremo intraprendere, poiché da decisioni avventate sono derivate spesso scelte fallimentari. Il terrorismo fondamentalista non è un fine, è un mezzo per raggiungere uno stadio successivo di violenza e di conflittualità. Con il terrorismo, Daesh, tenta proprio di trarci in trappola nei lembi di deserto che occupa e di aggravare i processi di odio che già aleggiano nel vecchio continente. Ma il terrorismo non ha colpito solo noi, perché quello in corso non è uno scontro di civiltà. Quello in atto, non è uno scontro tra noi occidentali (vaga espressione per accomunare tutti quei paesi che si riconoscono in un insieme di valori condivisi) ed i popoli di confessione islamica. Così come a Parigi, sono state strappate le vite di tanti innocenti in Kenya, Libano, Nigeria, Tunisia, Egitto, Mali, Yemen e Turchia, per non palare del conflitto che attraversa l’Iraq e la Siria. Ecco allora un primo punto fermo, che deve indirizzare il nostro pensiero: così come contro i fascismi del xx sec nacque un’alleanza internazionale, che spaziava da Roosvelt a Stalin, così, adesso, dobbiamo superare i pregiudizi e accantonare le differenze, nella comunità internazionale, e creare un saldo fronte comune, che racchiuda tutti quei popoli che resistono al terrore.
Non dovremo parlare di sconvolgente o terrificante in riferimento a quel che è successo a Parigi, bensì dovremo parlare di inaccettabile. Questo per una prima ragione ben precisa: il terrorismo lo si alimenta con il terrore, il terrorismo è efficace quando entra nella sfera dell’emotività collettiva di una o più nazioni fino a macchiarla di paura, di terrore appunto. E se il terrore si sparge c’è una causa e un mezzo: l’atto di terrore in sé ed i mezzi di comunicazione. Ma la stampa e i media sbagliano perché fungono da mezzo?
No, tutt’altro. Semmai i media fallano quando giocano sull’emotività delle persone per vendere le notizie. Ed allora quale potrebbe essere una formula efficace per far in modo che le notizie non spargano terrore? Giocare sul senso dell’inaccettabilità di questi fatti, urlare a squarciagola che “ciò non deve essere accettato da noi”, urlare che questi fatti possano avvenire ma noi non li vogliamo nel nostro mondo, nel mondo ce vogliamo costruire insieme. E questo per una ragione ben precisa, l’occidente, (o meglio la laica cultura occidentale), prevede il confronto ed il dialogo tra le verità, non lo scontro sanguinario. Ed è per questo motivo che fatti del genere sono e debbono essere inaccettabili; e cioè perché il nucleo centrale della nostra cultura già troppo frammentata e fragile resti saldo: quello che sancisce la convivenza delle differenze e non la distruzione di esse. E quindi cosa dovremo fare? Conviverci con questo terrore, almeno finché l’incubo del fondamentalismo giunga al suo termine (se mai ci sarà). Occorre conviverci per non permettere che le morti siano efficaci al fine per cui sono state volute e cioè quello di piegarci come cultura, piegare la nostra libertà, la libertà di comportarci come sempre ci siamo comportati. Questa è la soluzione che deve precedere ogni attacco militare. Il terrore vive se noi lo lasciamo spargere.
L’attentato di venerdì 13 novembre non è stato un attacco a Parigi o alla Francia, ma alla civiltà occidentale. L’obiettivo dell’organizzazione nota come ISIS è quello di far precipitare l’Occidente nel caos.
Ma perché questo gruppo terroristico ha fatto dell’Occidente il proprio bersaglio? E soprattutto, com’è possibile che molti degli affiliati del c.d. Stato Islamico provengano proprio dall’Occidente stesso?
La questione religiosa non è da prendere neanche lontanamente in considerazione, spero sia chiaro per tutti che si tratta di un banale pretesto. L’origine di tutto sta nella mancata integrazione di questi soggetti nel modello di vita che caratterizza la civiltà occidentale perché non sono entrati prima in contatto con lo stile di vita occidentale o perché i contatti ci sono stati ma sono stati traumatici (vedi la politica estera europea e statunitense degli ultimi quindici anni) oppure perché nella nostra metà del mondo l’integrazione è sempre vista con sospetto diffidenza. È sintomatica anche la natura degli obiettivi scelti, il teatro, lo stadio, il ristorante, perché si tratta di strutture sociali tipiche della nostra società ed è evidente che se un individuo non è riuscito ad integrarsi le percepisce come “estranee” se non addirittura come fonti di disvalore. Inasprire le differenze e dichiarare guerra alla diversità non è la soluzione e quanto è accaduto negli ultimi anni ne è la conferma. Le bombe non guariscono nulla.
Dopo il dolore è il momento della ragione.
E la ragione impone il dovere morale di non cedere alle seduzioni offerte da una visione semplicistica del nostro tempo.
Troppi i commenti sul web che, sull’onda emotiva dei fatti di Parigi, inneggiano all’odio verso i musulmani.
Ma è pericolosamente facile in questa dolorosa circostanza, dimenticare quelle che sono le colpe storiche e attuali dell’Occidente. Per più di un secolo ci siamo arrogati il diritto di poter giocare impunemente con gli equilibri di una metà del mondo. E lo Stato Islamico costituisce uno dei frutti di questo gioco scellerato. Ignorare questo fatto equivale a consegnare la nostra capacità di ragionamento e di critica nelle mani dei terroristi; significa appiattire il nostro tempo su quella terribile linea che stabilisce l’equivalenza fra Islam e odio.
Lo Stato Islamico vuole convincere il mondo occidentale che dietro a ogni musulmano si nasconde una macchina pronta ad uccidere e ad uccidersi in nome di un Dio che non può essere lo stesso che parlò al Profeta.
Se risponderemo alla violenza con una violenza cieca e indiscriminata, allora il Califfato avrà vinto. Solo evitando di ghettizzare e di demonizzare il diverso, saremo davvero in grado di sconfiggere il terrorismo.
Oltre ad un’inevitabile ondata di paura, la brutale sequenza di attentati perpetrati dall’Isis ha portato e riaffermato un messaggio che i governanti dell’Occidente non hanno voluto, almeno fin ad oggi, recepire nella sua interezza: questa guerra non sarà vinta con la sola prevenzione.
Monitorare, controllare e, al tempo stesso, sorvegliare fisicamente migliaia di possibili sospetti in centinaia di città non potrà mai, infatti, sfociare in una effettiva eliminazione del rischio che si verifichino eventi come quelli parigini. Occorre che le principali cancellerie mondiali organizzino una conferenza internazionale di ampia portata, alla quale aggregare tutti i principali attori dell’area e non, per addivenire a una soluzione politico-militare condivisa al conflitto siriano e a quello iracheno.
Nel frattempo, le potenze occidentali non potranno più permettersi di fare finta di non vedere quanto accade in Medio Oriente; è imperativo e indispensabile incrementare il sostegno militare a chi effettivamente combatte il Califfato sul campo, milizie curde e sciite in primis.
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