Per comprendere ciò, tuttavia, è necessaria una premessa. Ad ovest dell’Iran si estende l’Iraq, un Paese dalle ingenti risorse energetiche che è stato governato per quasi venticinque anni da Saddam Hussein, un sanguinario dittatore. Quest’ultimo, sebbene laico, professava la religione musulmana sunnita, laddove la maggior parte della popolazione era fedele allo sciismo, la branca minoritaria dell’Islam che ha come leader supremo proprio l’Ayatollah, il capo dello Stato iraniano. Anche per questo motivo, l’Iraq ha combattuto una lunga e sanguinosa guerra con il potente vicino nel decennio compreso tra il 1979 e il 1989, finanziato ed equipaggiato tanto dall’Occidente quanto dall’URSS, sebbene a fasi alterne. Con la caduta del regime di Saddam nel 2003, a cui ha fatto seguito l’impiccagione del dittatore, la coalizione a guida americana ha sovrinteso alla stesura di una nuova Costituzione irachena che garantisse e tutelasse, almeno formalmente, i diritti dei gruppi etnici e religiosi, soprattutto curdi e sciiti, perseguitati dal precedente establishment.
Di fatto, però, l’azione diplomatico-legislativa occidentale ha favorito l’insediamento di un esecutivo sciita che ha, in taluni casi dolosamente, quasi completamente omesso di trattare in modo equo le minoranze del Paese. Non deve pertanto sorprendere come, nell’estate del 2014, una larga parte della popolazione sunnita irachena, stanziata prevalentemente nella provincia settentrionale di Nineveh, abbia deciso di schierarsi con l’esercito invasore del Daesh, che ha addirittura stabilito la propria capitale regionale a Mosul. Ciò ha determinato uno spontaneo, e fino a dodici anni fa impensabile, riavvicinamento tra il governo di Baghdad, allora guidato dal presidente Nouri-Al Maliki, e quello di Teheran di Hassan Rouhani, il “moderato” che ha preso il posto di Ahmadinejad al timone della Repubblica Islamica nel 2013.
Quest’ultima non si è limitata al mero sostegno politico, tutt’altro, come dimostra l’invio in territorio iracheno di circa cinquecento elementi delle
Come è facilmente intuibile, anche gli Stati Uniti hanno interesse alla pace e all’integrità dell’Iraq, soprattutto dopo aver impiegato due guerre dispendiose in termini di denaro e di risorse umane per perseguirle, a cui hanno fatto seguito quasi dieci anni di occupazione militare. Innanzitutto, il sostanziale controllo sulle riserve petrolifere irachene è determinante per l’economia statunitense; una eventuale conquista del Paese da parte dell’ISIS, inoltre, con il conseguente caos, costituirebbe un danno gravissimo per il prestigio e per la credibilità di Washington, impelagata da troppo tempo nel ginepraio mediorientale e la cui amministrazione ha ritirato le ultime truppe dalla terra dei due fiumi meno di quattro anni fa, nel 2011. Fin dall’inizio dell’escalation, dunque, l’aeronautica militare americana, supportata dai jet di altri Paesi coalizzati, continua ad effettuare missioni di bombardamento contro le roccaforti jihadiste. Ciò ha comportato una automatica ed involontaria cooperazione con il “nemico” Iran, suggellata dalla vittoriosa battaglia di Tikrit e dai ripetuti successi ottenuti dalle truppe regolari irachene e dai peshmerga curdi.
Questa collaborazione, però, è verosimile soltanto a breve termine, poiché gli interessi dei due Paesi nella regione sono diametralmente opposti. Da un lato la superpotenza in declino che ha al primo posto della propria agenda il mantenimento dello status quo nella regione, dall’altro la potenza emergente candidata energicamente ad un ruolo egemone in tutto il Medio Oriente e non più solo per lo sciismo mondiale. Cosa accadrà quando, con il Califfato debellato ed i suoi capi sottoterra o dietro le sbarre, il governo di Baghdad sarà costretto a scegliere?
Per cosa opterà il nuovo Iraq post-bellico?
Molto dipenderà, inevitabilmente, dall’esito della Guerra Civile Siriana, ma l’impressione dominante è che si tenterà una difficoltosa ed instabile via di mezzo che avrà come unica conseguenza apprezzabile un nuovo acuirsi dell’ostilità tra Stati Uniti e Iran, nonostante la parvenza di “normalizzazione” che sembra essere in atto dopo gli accordi di Losanna sul nucleare. Sarà senza dubbio difficile, per Al-Abadi e per i suoi successori, allontanarsi dal regime degli Ayatollah dopo il massiccio sostegno, anche economico, elargito da quest’ultimo.
Marco D’Alonzo