Sulle gaffes dei calciatori nell’intonare Il canto degli italiani (universalmente noto come Inno di Mameli) se ne sono dette tantissime e, dato che tra pochi giorni avranno inizio gli Europei di calcio, sicuramente se ne diranno altrettante. La musica dell’inno, di Michele Novaro, è sempre e costantemente trattata come una specie di marcetta fiacca e stanca, mentre l’inconsueto lessico di Goffredo Mameli ha prodotto i più incredibili svarioni e suscitato sempre maggiori perplessità. Ce li vedete a cantare «stringiamci a coorte»? Di sicuro da qualche parte è avvenuto un dialogo simile:
Calciatore A: «Stringiamoci a corte…»
Calciatore B: «No no no! Stringiamci!»
A: «Eh? Ma che stai a di’?»
B: «Stringiamci! Non stringiamoci! Sringiamci, senza la o!»
A: «Ah, ok! Stringiamci a corte…»
B: «Nooooo! A coorte! Non a corte, a COORTE, con due o!»
A: «Ah, ecco ‘ndov’era finita quela de prima!»
Battute scontate a parte, credo che questo non sia troppo distante dal vero. Inoltre, se avete notato, l’interpretazione musicale lascia sempre molto a desiderare. D’accordo, non è un concerto, ma se il nostro inno viene sempre eseguito così fiacco non mi stupisco che continuino ad esserci persone che lo reputano orribile e vorrebbero sostituirlo con altro, magari col Va’ pensiero (vero, Lega Nord? VERO?!). A prescindere dalla questione Va’ pensiero come inno d’Italia – che non mi interessa perché è una balordaggine – vi rivelo un segreto; l’inno di Mameli fa sempre una magra figura perché c’è sempre un errore di comprensione alla base di quasi tutte le sue esecuzioni che mi è capitato di udire: l’inno di Mameli non è una marcia ma una cabaletta!
Vedo già i punti interrogativi sulle vostre teste, per cui andrò dritto al sodo: la cabaletta è una forma musicale tipica dell’opera lirica dell’Ottocento e la sua particolarità sta proprio nell’avere una ritmica molto incisiva e coinvolgente. In sostanza è il momento in cui il compositore, dopo un lungo e melenso cantabile, vuole stuzzicare il pubblico e strappargli sonori applausi. Perciò capite bene che un’inno in forma di cabaletta dev’essere interpretato in modo assai brillante e vivace, non come una sorta di marcetta.
Per farvi capire meglio cosa aveva in mente Novaro, immaginatevi questo. Palcoscenico, in un vasto paesaggio il coro (un gruppo di popolani) sente lontani gli echi di una battaglia, colpi di cannone e spari di moschetto, per i quali provano un certo timore.
Ad un tratto entra il tenore, immaginatevi un tipo a cavallo con cappa e spada, tipo Garibaldi. Il tenore si avvicina baldanzoso al coro e con fierezza esclama (notare f con molta energia):
In poche parole il nostro tenore a cavallo annuncia che la storica impresa è compiuta. Il suo tono solenne e glorioso impressiona ed emoziona molto il coro e a questo punto Novaro ha la geniale intuizione delle note ribattute che oltre a stupore e meraviglia suggeriscono anche il battito del cuore. A questo punto il coro inizia a parlare tra sé, in modo concitato, segno che una grande emozione si sta impadronendo di lui.
A questo punto il tempo cambia: da un Allegro Marziale si arriva a un Allegro Mosso, che suggerisce bene l’idea di un vociare serpeggiante tra il popolo, e proprio come un vociare di folla si alza e si abbassa d’intensità, fino alla strepitosa climax finale in cui si fondono coro e tenore che gridano «sì!» (la testa dell’ultima nota a forma di x significa proprio che quella nota va detta e non cantata).
Questa dev’essere l’intenzione che ognuno deve avere nell’intonare Il canto degli italiani, non una marcetta eseguita così, solo perché è obbligatorio cantarla prima di ogni partita. Un’inno nazionale deve essere un’iniezione di fiducia, deve infondere grinta, se viene cantato sempre nello stesso modo, con flemma e noia, con quale spirito un giocatore può calciare il pallone d’inizio?