Dopo centocinquant’anni la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi torna al Teatro alla Scala di Milano e, per giunta, lo fa nella serata d’apertura della Stagione lirica del Piermarini. Una Prima assai particolare che ha attirato l’attenzione di quattordici Paesi europei, sia per l’insediamento di Riccardo Chailly come nuovo direttore musicale stabile sia per la preoccupazione che ha fatto seguito alla dichiarazione da parte dell’FBI della Scala come possibile obiettivo per attentati terroristici. Proprio per tutelare lo storico teatro milanese c’è stato un’imponente spiegamento di forze: metal detector che agli ingressi, transenne posizionate a circa cento metri dall’ingresso del teatro, Piazza della Scala controllata dagli artificieri, tiratori scelti negli edifici attorno al Piermarini, elicotteri, 700 tra agenti e militari. Una Prima sottotono, se vogliamo, ma non sono mancate le autorità e le presenze celebri: tra gli altri in platea Mario Monti, Gianni Letta, Daniela Santanché con il marito Sallusti, Carla Fracci e la cantante Patty Smith, mentre il palco reale è stato occupato dal sindaco di Milano Pisapia, Dario Franceschini, Graziano Delrio, Roberto Maroni, l’ambasciatrice di Francia Catherine Colonna, il prefetto di Milano Alessandro Marangoni e, naturalmente, il presidente del consiglio Matteo Renzi che non ha cantato l’Inno di Mameli prima dell’apertura del sipario.
Ma i veri protagonisti della serata sono stati il già citato M° Riccardo Chailly, il soprano Anna Netrebko (Giovanna d’Arco), Francesco Meli (Carlo VII) ed il giovane David Cecconi (Giacomo) che ha sostituito il baritono Carlos Àlvarez, impossibilitato da una bronchite.
L’interpretazione di Chailly è stata assolutamente all’altezza delle aspettative, sfoderando un suono brillante, infiammato, che ha perfettamente reso la “tinta” di questa particolare opera del primo Verdi, ma sempre misurato. Era questa la difficoltà principale della Giovanna d’Arco, non eccedere: si tratta di un’opera di fuoco e fiamme, ma anche di cori angelici e redenzione, una sonorità troppo aggressiva e poco curata renderebbe questo interessante laboratorio verdiano – perché di questo si tratta – un’insopportabile polpettone, ed è stato questo che Chailly ha presentato al pubblico e cioè un’opera sanguigna ma calibrata al millimetro, come si intuiva già nel superbo Preludio. Eccellente la prestazione della Netrebko che ha fornito una poliedrica caratterizzazione della pulzella d’Orleans, partendo da una contadina che si trasforma in guerriera, passando poi ad una donna sicuramente forte ma lacerata dalla passione impura per re Carlo e culminando con una santa che ascende al cielo; naturalmente queste differenziazioni interpretative non hanno avuto un peso solo tanto da un punto di vista della recitazione quanto da quello del canto, sostituendo ad una voce scura e ferma una più alata e sottile, ma sempre piena e sicura. Ottimo anche Francesco Meli che ci ha regalato un’emozionante re di Francia dal timbro angelico, quasi apollineo, unito ad una recitazione impeccabile ed estremamente patetica (nel senso del pathos), così come è stato validissimo Cecconi. Dispiace per Àlvarez, ma affermo con convinzione che il sostituto è stato assolutamente all’altezza del non facile ruolo.
Ciò che invece non ha funzionato come mi sarei aspettato la regia e le scenografie: i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier hanno deciso di concentrare l’azione scenica nella stanza di Giovanna (ecco spiegato il letto onnipresente in tutto il melodramma, battaglie comprese) e ci mostrano la vicenda dal punto di vista di una Giovanna quasi allucinata, che ha visioni di battaglie, morti, cori celesti e schiere demoniache direttamente dalle pareti della stanza. Per quanto sia affascinante quest’idea, non ha reso pienamente le intenzioni del libretto: alcuni momenti li ho trovati veramente suggestivi, come l’apparizione dei demoni alla fine dell’Atto I o l’acclamazione dinnanzi alla Cattedrale, ma mi è sembrato che la regia fosse fin troppo macchinosa ed impostata per quello che è poco più che un dramma giovanile (peraltro neanche troppo stimolante) che gioca troppo sulla psicanalisi e commette l’errore tipico di queste regie à la page: si perde nei suoi meandri e finisce per confondere ancor di più gli spettatori, ed in questa rappresentazione c’è più di un dettaglio che non funziona, come re Carlo VII laccato e dorato come l’Apollo di Death in Venice a Glyndebourne nel 1992 (o il C3-PO di Guerre Stellari), l’eterno letto di Giovanna o le tre pareti del palcoscenico che si trasformano in una sorta di teleschermo. Intendiamoci, la regia non è totalmente sbagliata od imbarazzante come quella del Fidelio dello scorso anno, è anche abbastanza adeguata e – tutto sommato – in alcuni casi apprezzabile, tuttavia si poteva dare di più. A quanto pare sono costretto a ripetermi in eterno: la regia non deve mettere in difficoltà lo spettatore, deve aiutarlo a comprendere al meglio quanto accade in scena; una regia può essere colta e coinvolgente pur mantenendo una grande semplicità ed una umile aderenza al libretto (si veda la Cenerentola di Ponnelle).
La speranza è che l’arrivo di Chailly risollevi il Teatro alla Scala dopo la disastrosa esperienza con Daniel Barenboim e che lo riporti ai fasti di quando il direttore musicale stabile era il M° Riccardo Muti. Devo dire che questa Giovanna d’Arco mi ha un po’ deluso, ma ho la massima fiducia in Chailly come direttore musicale, oltre che un’altissima stima del Maestro come musicista e credo che possa sanare la nostra memoria dagli allestimenti che – ahimé – hanno caratterizzato queste ultime stagioni del Piermarini.
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