A più di un anno dal suo insediamento (avvenuto il 28 dicembre 2012), il Governo giapponese di Shinzo Abe ha conquistato nei mesi scorsi spazi di rilievo, con più di un elogio, all’interno del dibattito economico. Ciò che ha finora caratterizzato l’approccio di Abe alla crisi dell’economia è stata la “direzione ostinata e contraria” imboccata rispetto all’austerity di casa nostra. In effetti, la banca centrale giapponese è stata protagonista in questi mesi di un politica monetaria espansiva con iniezioni imponenti di liquidità nel sistema economico nazionale. Si tratta di un metodo di approccio alla crisi di segno nettamente opposto rispetto al rigorismo europeo che si sostanza nell’accettazione supina dei dogmi dell’equilibrio del bilancio pubblico e nella riduzione annuale di stocks consistenti di debito pubblico (Fiscal compact). Le misure attuate da Abe portano un marchio molto diverso: da un lato, attraverso iniezioni di liquidità consistenti, il governo giapponese ha dimostrato di essere assai diffidente rispetto ai parametri di bilancio votati al pareggio, dall’altro ha abbattuto il dogma del necessario ridimensionamento del debito pubblico (è bene ricordare che il Giappone detiene il record mondiale di ammasso di debito pubblico in termini percentuali, pari a più del 200% rispetto al PIL).
Ma quali sono, a più di un anno dall’insediamento, i risultati concreti che il governo Abe e la sua politica espansiva hanno prodotto in termini economici? Sono seguite conseguenze più favorevoli in termini sociali rispetto ai colpi di accetta a cui siamo abituati a occidente?
A seguito dell’abbassamento del corso dello yen, pressantemente richiesto dai grandi esportatori, le vendite all’estero hanno subito un incremento deciso (un aumento del 16% registrato a ottobre 2013 rispetto allo stesso mese del 2012), ma molto inferiore rispetto alle aspettative,in ragione della debole crescita economica delle regioni importatrici. Altra conseguenza del ribasso è stato l’incremento notevole dei prezzi sulle merci importate registrando un deficit pari a 9 miliardi di euro a fronte di un’eccedenza di 11 miliardi di euro nel 2007.
Quanto al tasso di crescita annuale del PIL, che aveva raggiunto punte del 4,3% tra gennaio e marzo 2013, nel terzo trimestre (da luglio a ottobre) è caduto all’1,9%.
Sul piano sociale le stime rappresentano una tendenza non migliore: il numero di nuclei famigliari richiedenti l’aiuto dei servizi sociali batte un record storico con un milione e seicentomila famiglie interessate (dati risalenti all’agosto 2013). I dati relativi alla disoccupazione, su stima OCSE, parlano di un tasso molto basso (4%) che nasconde dietro di sé una situazione sociale assai critica che vede una precarizzazione complessiva del 35% degli impieghi ed una regressione netta (-1,3% tra ottobre 2012 e ottobre 2013) del reddito reale dei salariati. Altrettanto rilevante, sul versante dei diritti sociali, è la progressiva desindacalizzazione del mondo del lavoro, attraverso la delega ad associazioni non sindacali delle rivendicazioni del mondo del precariato, attraverso metodologie effimere di conflitto e contrasto alla generalizzazione del fenomeno.
Contestualmente in Giappone si riproduce un’offensiva commerciale fondata sull’esportazione di centrali nucleari, prodotti alimentari di lusso ed equipaggiamenti militari ad alta tecnologia.
Già considerato autonomamente, il rilevante investimento in produzioni militari inquietano necessariamente a fronte di un’escalation bellica che da anni sta interessando regioni sempre più numerosi del globo e tradiscono una modalità di “esportazione della crisi economica” dai singoli stati ai territori interessati dai conflitti.
E’ sicuramente vero che le conseguenze sul piano economico-sociale della “dottrina Abe” potrebbero essere persino invidiabili nei nostri confini patri, ma è possibile affermare che l’idolatria di certi neokeynesismi sia parimenti fuorviante rispetto a quella neoliberista? Come spesso è capitato, non si pone a questo punto l’esigenza di una riflessione più profonda rispetto alla crisi del capitalismo e alla necessità di superare un approccio “correttivista” in favore di una discussione profonda che tocchi le radici di un intero sistema economico?
Se non ci si cimenterà nel dare risposte a questi interrogativi potrebbe essere il futuro stesso a sciogliere questo nodo e non è detto che un intero sistema non ne esca strozzato.
Francesco Valerio della Croce
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