Borse mondiali in calo mediamente del 3%, differenziale tra i Btp e i Bund in salita al 4,54%, spread a 288 punti: questo è il quadro della giornata economico finanziaria dello scorso giovedì 20. Più di un “tecnico” dell’Olimpo della finanza si era speso nei mesi e nelle settimane scorse per tranquillizzare i cittadini-contribuenti europei affermando il definitivo superamento della fase acuta della crisi ed una tendenziale propensione alla ripresa, attraverso l’imposizione al centro della discussione tra gli Stati del tema della crescita economica. I dati però sbugiardano questa rappresentazione dei fatti: non solo, infatti gli indici principali dell’economia hanno subito un tonfo, ma è anche d’interesse notare che l’esito negativo della giornata è stato segnato a seguito delle dichiarazioni del presidente della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, il quale aveva sostenuto che l’azione della banca centrale Usa potesse farsi meno diretta nel mercato dei titoli di Stato (garantiti, oggi, da un tasso d’interesse bassissimo che oscilla tra lo 0% e lo 0,3%).
La reazione dei mercati a questa dichiarazione dimostra quanto in realtà sia complicato discostarsi da un profilo emergenziale che le istituzioni economiche dei prinicipali Paesi occidentali hanno dovuto assumere con lo scoppio della crisi. D’altro canto, si pone il serio problema per l’economia statunitense di impedire che l’economa nazionale risulta inondata da un eccesso di liquidità che potrebbe ben presto rivelarsi un boomerang molto pericoloso, non solo in termini inflazionistici, ma soprattutto per il timore che una simile mole di denaro possa alimentare nuove bolle speculative pronte a scoppiare e riportare le economie nazionali nell’occhio del ciclone di una crisi finanziaria.
Gli indicatori, di fatto, dicono che questa ipotesi non è assolutamente escludibile: più di un commentatore ha salutato positivamente l’azione espansiva, in termini monetari, del nuovo governo giapponese. Si è persino sostenuto che, essendosi applicati sui titoli di stato del Sol Levante tassi di interesse molto bossi, in seguito all’azione governativa, diversi investitori hanno preferito, nel corso delle settimane scorse, rivolgersi nei mercati dei titoli degli stati europei, allentando ulteriormente la morse degli spread che nel corso di questi anni sono stati al centro di un costante monitoraggio a causa di un apparentemente inarrestabile ascesa dei valori. Ma la reazione, ancora una volta, dei mercati borsistici e finanziari, hanno palesato l’inefficacia di simili operazioni. Alcune settimane fa, infatti, le borse internazionali hanno registrato segni negativi ovunque.
Anche quelle economie, che sembravano in una certa misura essere immuni dal contagio della crisi, attraversano oggi una fase critica tutta ancora in evoluzione. E’ il caso dell’Olanda che, stretta nella morsa dell’insolvenza del debito sovrano, appare oggi il prossimo “campione” da monitorare in Europa. Non lasciano infatti dubbi sul serio rischio di evoluzione in negativo della situazione le parole dell’economista britannico Simon Wren- Lewis, secondo il quale non sarebbe assolutamente scusabile una nuova applicazione, anche nei confini Olandesi, delle misure di austerità già sperimentate negli anni scorsi e che hanno prodotto effetti talmente disastrosi da essere considerata irriproponibili anche da intellettuali poco keynesiani.
Un altro economista di fama che in questi anni ha criticato, e duramente, l’intero sistema e la teoria stessa delle misure di austerity, Paul Krugman, è tornato ad attaccare la “Troika” (FMI, BCE e Commissione) sul feticcio delle “misure di sistema”. Proprio in questi giorni, tra l’altro, una delle banche d’investimento più importanti del mondo e nota per vicende legate ad una non proprio trasparente gestione di risorse, JP Morgan, ha diffuso un rapporto nel quale vi è un chiaro invito rivolto alle parte delle autorità di governo Ue a “sbarazzarsi” delle Costituzioni nazionali antifasciste, alludendo alle norme di rango costituzionale che, nel secondo dopoguerra, hanno assunto ai massimi livelli giuridici i valori di una legislazione sociale avanzata, la necessità di un presidio imprescindibile dello stato in economia, rifiutando il dogma dell’autoregolamentazione del mercato.
Si tratta di un leitmotiv che da anni propugna l’insostenibilità di modelli di welfare universalistici conosciuti nella seconda metà del secolo scorso. Da più parti si è criticato fortemente questa impostazione, da un lato attraverso i fallimenti di questi mesi in cui il rigorismo di bilancio ha fatto terra bruciata dei “lacci e lacciuoli” degli ordinamenti nazionali, attraverso revisioni costituzionali, imposte dai trattati europei, sottoscritti dagli stati, dall’altro attraverso la costatazione che economieemergenti, oramai completamente emerse, come quella cinese, concentrano la loro attività di programmazione verso sistemi di welfare simili a quelli del Vecchio Continente, nel paradosso per cui in Ue questo modello sociale di sostegno diretto al potere d’acquisto e di garanzia dei servizi fondamentali non funzionerebbe perché retaggio di un passato di vacche grasse, mentre nell’ambito dei Paesi emergenti i sistemi di tutela universalistici sarebbero considerati come lo sbocco naturale di economie in crescita.
Siamo allora davvero fuori dal tunnel o invece chi guida la macchina dell’economia a fari spenti non si rende conto di avere difronte ancora una lunga galleria buia?
Francesco Valerio della Croce
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