Per un’eredità misteriosa due ragazzi partono per un viaggio avventuroso. Ecco un’altra puntata della nostra rubrica settimanale “Storie brevi”, una raccolta di piccole storie con vari temi e stili, ma sempre brevi e dirette al lettore. Questa settimana ecco la sesta parte del nostro racconto a puntate. Buona lettura!
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A cura di Simone Bacci
Camminare, camminare e non fermarsi più. La strada è pesante ma tanta è la voglia di arrivare in vetta. Un passo, due passi, forse tre o di più. Cosa resta dietro i viandanti oltre al sentiero già battuto, il panorama osservato di sfuggita o un bagno freddo in un lago di montagna, se il loro zaino non si svuota dei pesi inutili per essere sempre più leggero? E loro liberandosene si alleggeriscono, perché non sono che di passaggio: viene meglio camminare senza pesi da portare.
Paragonare la vita alla montagna è piuttosto immediato, ma l’arrivo in vetta differisce dalla morte: l’arrivo è sempre un nuovo inizio che non sappiamo dove ci porterà, mentre la morte è certa. Piuttosto la montagna è più simile a un atto di fede. Ci si affida a noi stessi e alla bontà della natura, si cerca di conoscerla, di prevedere ogni cosa, ma poi arriva l’incalcolabile, la variabile aleatoria.
I tre volevano quel tesoro, ma in quei giorni di cammino se ne erano quasi dimenticati, era diventato più importante raggiungere la cima piuttosto che un qualcosa di cui non erano ancora certi dell’esistenza. Almeno così fu finché Francesco non trovò quella capanna durante la notte, e d’improvviso tutto cambiò.
Tommaso e Beatrice si svegliarono come sempre di buon mattino, quando il sole era appena sorto e l’umidità era un muro grigio che rendeva il lago invisibile. Si vestirono in fretta, e notando l’assenza del saccopelo di Francesco si immaginarono un suo atto d’orgoglio nel passare la notte lontano da loro. Allora uscirono fuori e videro la cenere del fuoco sempre calda, quasi spenta, ma Francesco non era nemmeno lì. Tommaso lasciò a terra le proprie cose e corse verso il lago con il peggiore dei presentimenti: esplorò ogni sasso e tutta la superficie della sponda vicina in cerca dell’amico. Beatrice invece tornò nel boschetto, laddove la sera prima si erano spinti in chiacchiere, anche lei senza risultato. Dopo mezz’ora si trovarono davanti al fuoco per capire il da farsi.
Tommaso non si rassegnava, era così preoccupato da rendere visibile le sue nevrosi, mentre Beatrice era molto più lucida e risoluta ma lo stesso pensierosa.
Non può essere andato lontano, disse lei. Non ha attrezzatura, non ha preso niente della sua roba.
Che ne so, sei te l’ultima ad averlo visto, ruggì Tommaso sospettoso.
Aspetta, un’idea ce l’ho… Disse Beatrice correndo in tenda a rufolare nello zaino di Francesco.
Come immaginavo, non c’è: manca la mappa.
E dove potrebbe essere andato? Chiese Tommaso guardandosi attorno.
Di certo non può aver commesso qualche stupidaggine, non sarebbe tornato qui a prendere la mappa, non ti pare?
Ti ricordi cosa c’era nella mappa?
La croce del tesoro e un altro posto, un vecchio rifugio forse.
E se avesse trovato qualcosa? Gli chiese Beatrice.
Senza di noi e nel mezzo della notte?
Perché no? Ti ricordi dove era segnata?
Sinceramente non pensavo fosse importante, rispose Tommaso.
Forse lo era.
I due si divisero di nuovo: cercarono Francesco urlando il suo nome per tutto il bosco e lungo le sponde del lago. Dopo un’ora che lo cercavano Beatrice udì la sua voce. Per ironia della sorte nessuno dei due aveva cercato nel piccolo sentiero che dal lago portava verso la montagna, e da cui senza nebbia sarebbe stato facile intravedere le finestre di una piccola capanna di legno nascosta nella vegetazione appena all’inizio del sentiero. Francesco era lì, si era addormentato a terra nella capanna, leggendo qualcosa che aveva trovato su l’unico tavolo rimasto. Era una specie di libro dei visitatori scritto solo nelle prime pagine e iniziato da appena due anni, sulla sesta pagina c’era una dedica firmata M:
“Quassù nella piccola vallata, dove cielo e terra s’incontrano nel riflesso del lago per farci sentire più vicini a Lui, abbiamo passato molte giornate felici. Senza pensieri o doveri, se non quello di vivere forte il tempo che ci restava. Adesso che non ci sei anche questo posto ha perso la propria essenza, resta solo il ricordo dei nostri giorni migliori e anche le paure che ci hanno divisi mi sembrano insignificanti. L’avessi saputo da giovane avrei lottato per fiondarmi nella vita a piene mani. A che serve adesso ricordare se non ti ho con me?
Spero che questo posto si preservi sempre così, perché in questa capanna, che ci ha asciugati dalla pioggia di mille temporali, resterà sempre qualcosa di noi e di quello che abbiamo scoperto.
A proposito, sto cercando di raggiungere un’ultima volta il tesoro che abbiamo sepolto in vetta: perché ne ho bisogno quanto tu avresti bisogno di me, adesso che stai per tuffarti nel mistero più grande dell’esistenza, ed io, conscia o meno, a breve ti seguirò. Sarò pronta per non lasciarti mai più.
Tua, M.”
Che fosse Maria oppure no i tre non lo potevano sapere, certo era che il tono era lo stesso delle foto, la calligrafia pure, e per quanto Francesco si rinchiuse nel suo silenzio senza esprimere un giudizio di merito, tornò lampante che il nonno un’amante doveva averla per forza. O magari era stato tutto un gigantesco fraintendimento senza ragione. Non importava, ormai la strada rimasta non era molta: non restava che camminare fino alla vetta.
E camminarono, seguirono il bosco oltre il laghetto, seguirono il bosco tutto il resto del mattino, finché la corda fissata alla parete non li spinse a camminare lungo uno stretto tratto di roccia con un po’ di verde, quasi un sentiero, un po’ scivoloso un po’ friabile, dove la corda in ferro non c’era più, ma si vedeva lontano il punto d’arrivo, da cui la corda ripartiva, stavolta dritta verso la cima.
Quando si affronta un tratto del genere non ci si può scoraggiare né guardare attorno, verso gli strapiombi a destra e sinistra: bisogna proseguire dritti senza ripensamenti, decisi e guardinghi quanto basta per non esser superficiali. C’è bisogno di restare concentrati e di ascoltare, sentire i propri passi, avvertire ogni minimo cambiamento attorno a noi, e capire metri prima dove si annida una possibile minaccia. Ecco, forse un sentiero del genere è una metafora migliore della nostra esistenza.
Proseguirono spediti su quel tratto, liberandosi da corde e moschettoni, finché attorno a loro non tornarono le nubi dei giorni precedenti. La strada saliva leggermente, e i 2000 metri erano ormai vicini, poi scendeva di nuovo e i 2000 erano più lontani, e poi questa danza ricominciava. Con le nubi i tre non videro più neanche la parete rocciosa che portava alla cima del Montagnone, c’era solo il vuoto attorno a loro, un vuoto di nuvole, sassi e fine erba di montagna, inumidita, scivolosa, perfida.
Francesco guardava le spalle a Beatrice e Tommaso, che andavano dritti senza indugiare, e nello stare dietro di loro nascondeva la stanchezza accumulata in quei giorni e la paura che qualcosa potesse andare storto su quel sentiero infernale.
Pensò al tesoro, maledicendosi per aver inseguito una vecchia foto del nonno. Non era sicuro di voler sapere la verità, e neppure di rischiare la vita fino a quel punto. Di più: si sentiva anche in colpa per Tommaso e Sara, per quello che non riusciva a dire al suo amico e per quello che non aveva spiegato a Sara. Camminava su un filo molto delicato: il confine sottile tra un crollo nervoso e una stanchezza tipica della montagna, ma si portava tutto dentro, chiuso nel suo silenzio tra le nubi del Montagnone.
State attenti, disse Beatrice facendo un piccolo salto, qua c’è un ospite inatteso: se non lo disturbate lui non ci disturberà.
Anche Tommaso fece un salto in avanti, ma quando toccò a Francesco si rese conto che quella che aveva davanti era una vipera accovacciata in una strettoia del sentiero.
Io non ci riesco, disse tra sé.
D’improvviso quel senso di stanchezza salì forte dalle gambe verso la testa come una fiammata dentro di lui, paralizzando in un solo colpo i movimenti e il respiro, dandogli la sensazione di affogare e sentirsi veramente debole. Francesco iniziò a toccarsi addosso, e sentì che la percezione del suo corpo era diversa, anche la vista era annebbiata, e i suoni erano ovattati. Era in preda al suo primo attacco di panico.
France che ti prende? Gli chiese Tommaso preoccupato.
Lui non rispose, e facendo due passi indietro si sedette sul crinale a respirare a fatica. Gli mancava il respiro come se avesse il peso del mondo sul petto pronto a schiacciarlo o peggio a fargli venire un infarto. Pensò di essere stato morso dal serpente, che sarebbe presto svenuto e morto lì, poi pian piano riprese coscienza di sé e quel panico lo rese immobile, bloccato come una pietra ma un po’ più lucido. Guardava il serpente minaccioso a pochi metri da lui e per la prima volta pensò che il suo viaggio sarebbe finito lì.
Io torno indietro, disse Francesco.
Sei matto? Ormai manca poco, gli rispose Tommaso.
Alzati e prova a saltarlo, è più facile di quanto non sembri, lo incoraggiò Beatrice.
Non ce la faccio, rispose lui.
In effetti anche la vipera aveva cambiato posizione, e quasi fiutando la sua paura lo puntava minacciosa e in allerta. Sarebbe facile arrivare alla conclusione che quella fu solo lo causa scatenante, che fece riemergere tutte le paure che Francesco si portava dietro: la paura di essere morso, di scivolare giù, il non sentirsi sicuro, la stanchezza, la frustrazione, la caduta di Tommaso il giorno prima. Francesco era entrato nel tunnel della paura, e quel serpente non faceva che spingerlo ancora più in giù, come fosse sceso dai capelli di Medusa e l’avesse pietrificato per sempre.
Ricordati di quello che ti ho detto ieri sera: respira, guardati attorno, pensa e poi razionalizza, disse Beatrice, che si avvicinò a lui e continuò a parlare.
Tu non sei da solo, noi siamo con te, non hai niente da temere, fidati, fidati di me, alzati e prendi la mia mano.
Dico sul serio, rispose Francesco, io me ne vado.
No, France non te ne andare, ce la puoi fare, gli disse Tommaso.
D’improvviso Beatrice cambiò atteggiamento.
Ah sì? Te ne vai? Come vuoi, nessuno ti costringe.
Dicendo così si girò e continuò a camminare.
France, ripensaci, tu ce la farai. Vedrai, arriveremo in cima e lo faremo per tuo nonno, lo faremo per te, lo faremo per tutti e due. Ricordi? Questo è il nostro ultimo viaggio insieme prima di iniziare a lavorare.
Ieri sera non la pensavi così, rispose Francesco tirandosi su.
No, e mi sbagliavo, non su tutto, ma su gran parte di quello che ho detto.
Francesco guardò la vipera che sembrava essersi calmata, poi guardò Tommaso, girò la testa attorno a sé e sorrise. In quel momento ripensò alle parole che aveva letto poco prima da Maria: adesso che non ci sei… anche le paure che ci hanno divisi mi sembrano insignificanti. L’avessi saputo da giovane avrei lottato per fiondarmi nella vita a piene mani.
Sai cosa ti dico? Disse Francesco prendendo coraggio. Che del tesoro non m’importa un bel niente, io volevo stare con te e parlare di tutto fuorché di mio nonno.
Allora vieni, disse Tommaso.
Certo che vengo, la vita è troppo breve per farsi frenare dalle proprie paure.
Poi chiuse gli occhi, fece diversi respiri profondi e qualche piccolo passo avanti. Quando li riaprì non ci pensò due volte, e saltò dritto oltre il serpente, che non sembrò nemmeno curarsi del suo movimento.
Tommaso gli andò incontro abbracciandolo, e anche Beatrice li guardava più avanti soddisfatta.
L’importante non era l’aver superato il serpente ma aver affrontato la propria paura con un motivo per spingersi oltre. Fu così che Francesco imparò a vivere leggero senza farsi frenare dalle proprie paure, mentre il serpente scocciato se ne strisciò via lungo la parete rocciosa alla ricerca del sole che non c’era più.
Ripartendo furono colti da un temporale improvviso sul crinale del monte, e non potendo fermarsi furono costretti ad andare avanti, riparandosi con impermeabili e arrangiamenti di fortuna. Quando arrivarono di fronte alla parete rocciosa che saliva dritta verso la vetta, divenne lampante che proseguire quel giorno sarebbe stato molto rischioso, così si adoperarono per trovare un modo per ripararsi in quel poco spazio che li separava da una caduta rovinosa oppure da un fulmine.
Stiamo lontani tra noi il più che possiamo o faremo la fine dei greggi presi dai fulmini, disse Beatrice. E poi troviamo uno spazio per poggiare la tenda per la notte.
Ma lo spazio non c’era.
Siamo a metà del pomeriggio, disse Tommaso, non possiamo restare qui fino a domattina a prendere l’acqua, dobbiamo provare a salire in cerca di un punto dove piantare la tenda o ripararci.
È una follia, disse lei.
Sono d’accordo con Tommy, andiamo avanti.
Cos’è questa iniezione di coraggio Frà?
Ho passato tutto l’ultimo periodo nella mia zona di comfort, adesso voglio osare.
Osare in queste condizioni è da incoscienti.
Bea, dobbiamo provarci: restare qui è ugualmente da incoscienti, disse Tommaso.
Allora proviamo, ma sappiate che quando scivolerete o peggio, vi prenderà un fulmine, mi darete ragione.
È un rischio che possiamo accettare, rispose Tommaso.
Fissarono il moschettone alla corda e cominciarono a scalare la parete più dura sotto una pioggia pesante e densa di lampi.
Dopo un’ora e meno di cento metri percorsi, Francesco che guidava il gruppo, si trovò di fronte a una piccola caverna.
Eccolo il nostro riparo, disse.
Aiutò i due amici a salire e poi rufolando nello zaino disse: abbiamo soltanto poco cibo rimasto, dobbiamo razionarlo se vogliamo sopravvivere.
Tranquillo, domani faremo l’ultimo sforzo e poi saremo in vetta.
Guarda France, disse Tommaso illuminando con la torcia una scritta scolpita sul fondo della parete.
“La paura non ti ha sconfitto perché la tua motivazione è più forte. M.”
Guardate, qui c’è una freccia, disse ancora Tommaso. E lì un’altra.
Le frecce scolpite sulle pareti della caverna portavano a un piccolo cunicolo in basso alla sinistra tra le rocce.
Come facciamo a passarci?
Ci penso io, disse Beatrice tirando fuori dallo zaino il suo martelletto da arrampicata, mentre fuori tuonava forte l’ultimo lampo della burrasca che da qualche parte vicino loro colpì un gregge di pecore. Il pastore uscì di corsa da casa sua e corse in contro a quell’ecatombe, buttandosi in ginocchio a piangere disperato.
Cos’è successo? Gli chiese un passante in cerca di un riparo per sfuggire al temporale.
È morto il mio gregge, rispose il pastore in lacrime.
Ma sarai assicurato, no?
Non mi interessa, io le conoscevo una ad una, ognuna aveva un nome e una storia, sono come le mie figlie per me.
Quel passante si inginocchiò insieme a lui iniziando a pregare, per la prima volta in vita sua aveva compreso la parabola evangelica del buon pastore.