21 Novembre 2024

Ecco un’altra puntata della nostra rubrica settimanale “Storie brevi”, una raccolta di piccole storie con vari temi e stili, ma sempre brevi e dirette al lettore. Questa settimana abbiamo deciso di iniziare la pubblicazione di una storia a più puntate. Buona lettura!

Per leggere la storia precedente cliccate qui.

 

A cura di Simone Bacci


 

Francesco si svegliò a metà pomeriggio accorgendosi di aver dormito due ore o forse poco più nel suo letto. D’intorno a lui nessun rumore e dalla finestra semi-aperta passava la luce arancione vivo di quel pomeriggio di fine agosto. Nel riprender possesso del suo corpo Francesco si ricordò delle scadenze che gravavano su di lui. Annaffia il giardino. Allenati. Chiama Tommaso per accordarti sul pranzo di domani. Rispondi su WhatsApp a Sara, Pietro, papà e chiunque altro ti abbia scritto nel frattempo. Oggi scrivi la tesi almeno per un’oretta. Domani sera a cena con Sara. Stasera riunione dopo cena. Prepara cena, non vorrai fare tardi. Mancano le uova, esci che ora chiude il supermercato. Ma Francesco non si alzò, richiuse gli occhi e sprofondò di nuovo nel dormiveglia.

Quando la lancetta passò le sette, Francesco si alzò dal letto nell’impeto di una generica frenesia. Che faccio? Pensò. Infilò una maglietta e si diresse fuori ad annaffiare le piante che i suoi genitori gli avevano scrupolosamente affidato prima di partire un mese in viaggio. Il sole era abbastanza alto da far sentire tutto il suo calore, e le piante erano assetate dal caldo del giorno. Nel maneggiare la sistola del giardino Francesco si sentiva molto più soddisfatto di quanto non lo fosse di se stesso.

Finirai gli esami e ti sentirai un’altra persona, gli diceva sempre Tommaso. Ma anche se gli esami della magistrale erano finiti Francesco si sentiva uguale a prima: insicuro, incerto, stanco, molto stanco, forse più stanco di prima. Invece alle piante era bastato un piccolo sorso d’acqua del pozzo per riprender vita, niente di più.

Finito di annaffiare gran parte del giardino sul retro Francesco era ricoperto da schizzi di terriccio da cima a fondo, così pensò bene di puntare il tubo verde in alto verso il cielo e guardare le gocce piene di riflessi violacei e ocra cader sopra le sue labbra. Era il suo svago preferito, ma non gli bastò, così lasciò a terra il tubo, e mentre l’acqua scorreva si sdraiò nell’erba bagnata, con ancora addosso la maglietta fradicia. Si infilò una mano in tasca, tirò fuori dal pacchetto morbido una sigaretta un po’ storta e se la gustò nel suo personale paradiso bagnato.

Casa sua era in collina vicino ai boschi fuori dalla città, la notte le stradine deserte erano silenziosamente popolate da animaletti e rapaci in cerca di un po’ di cibo, ma la pace regnava sovrana sul colle: per questo casa sua era il suo posto sicuro. Il giardino sul retro che lui amava tanto era pieno di vita ma mal tenuto, avendo avuto il tempo da dedicarci sarebbe stato il suo sogno fermarsi per rimetterlo a nuovo, ma non aveva né il tempo né le conoscenze per farlo. Però amava fermarsi lì a pensare, annaffiarlo, prendersene cura, lo faceva quando poteva, mettendo il telefono offline, era una pausa di meditazione per lui.

Fu per questo che nonostante l’umido dietro la schiena e il solleticare di qualche insetto sulle sue gambe, Francesco restò a terra. Pensò a quello che doveva fare e si rese conto che tante di quelle cose non gli interessavano davvero, forse nemmeno rispondere a Sara. Era una brava ragazza, buona, piena di voglia di vivere, solare, colorata e sempre sorridente. Ma in quel momento quello che Francesco desiderava era un pugno nello stomaco, o magari uno schiaffo: qualcosa che gli desse un valido motivo per alzarsi deciso.


Ma quello schiaffo non arrivava mai.

Lasciata cadere a terra la sigaretta ormai spenta, Francesco si rese conto che quello che aveva fatto nelle ultime settimane era stato aspettare. Aspettare, rimandare, non scegliere. Non aveva fatto altro che giocare a stoppare il tempo. Lui che con il tempo se l’era presa meno di una settimana prima, quando suo nonno era stato strappato al mondo dopo novantaquattro anni dedicati a lavoro e famiglia. Sapeva che quel momento prima o poi sarebbe arrivato, ma non riusciva a realizzare che adesso non ci fosse più. I suoi primi ricordi prendevano forma in quei pomeriggi in cui suo nonno lo portava ai giardini della stazione a dare da mangiare alle tartarughe nello stagno. Si ricordava delle domeniche a vedere il campionato, poi a giocare a carte fino a metà pomeriggio. La finale del 2006, il trasloco del 2016, quando i nonni avevano ospitato tutta la sua famiglia per un mese.

Ma il ricordo che aveva forse più nitido era il ritorno da scuola, quando camminando a passo svelto verso casa lui gli chiedeva le tabelline a memoria. Sette per sette? Chiedeva il nonno, e Francesco rispondeva bene. Andava sempre veloce nonno, e anche a morire fu piuttosto veloce, fu il tumore che aveva sconfitto: se lo riprese nel giro di due settimane e lo portò via con sé per sempre. Come poteva dimenticare l’ultima settimana alle palliative, lo salutarono cinque giorni prima dell’ultimo battito, aveva gli occhi azzurri semi-aperti, stanchi e ormai privi di luce, e diceva parole sconnesse riguardo il calcio e i parenti morti che vedeva di fronte a sé. Fu un vero e proprio rito, lo salutarono in fila uno alla volta per qualche minuto, piansero tutti, tranne Francesco, lui si tenne tutto dentro e scelse con cura le ultime parole da dire a nonno, ma arrivato di fronte a lui, nel vedere la bocca deformata dal peso delle metastasi, arrancò e improvvisò quello che gli venne in mente. Non importava scegliere le parole giuste, importava esserci, e i suoi cari ci furono tutti, l’uno dopo l’altro, in fila come nel più sacro dei rituali. Il prete gli diede l’estrema unzione e poi lo addormentarono.

Fu così che nonno dormì, dormì per cinque giorni, dormì tutto il tempo, e la nonna accanto a ripetere le stesse preghiere imparate da bambina. Dopo sessantacinque anni di matrimonio lei lo guardò spegnersi lentamente, notte dopo notte, giorno dopo giorno. Erano passati solo quindici giorni dall’ultimo pranzo tutti insieme a casa dei nonni, e poi d’improvviso lui li aveva lasciati. Novantaquattro anni. Si dice che a quell’età sia giusto morire, che ci si senta pronti, e invece il dolore è sempre lo stesso, non per chi muore – sprofondare nel sonno è un attimo – ma per chi rimane. Non c’è solo un funerale da affrontare, ma il rientro a casa: i vestiti, le coperte ancora piene del suo odore, il dopobarba nell’armadietto in bagno, e miriadi di foto che riempiono album pieni di polvere. Quello è il momento che più fa male per chi resta, perché se fino al giorno prima si dava per scontata la presenza dell’altro, d’improvviso quella persona non c’è più, e si porta via molto di più del sé, porta via anche qualcosa degli altri. La nonna era forte, più forte di Francesco, perché lei faceva da mangiare ancora, sorrideva, e a ottantanove anni conduceva la sua vita come se non dovesse spegnersi mai. Il buio che era calato sopra Francesco invece se lo portava dietro da solo, perché a differenza sua gli altri avevano una direzione chiara nelle loro vite: suo padre quasi in pensione, sua madre entusiasta del lavoro, il fratello alle prese con l’inizio della magistrale. E lui che doveva scegliere sul suo futuro sembrava privo di certezze.

Della morte di suo nonno a Francesco rimaneva una sola domanda: che senso ha avuto la sua vita di sacrifici se poi tutto è finito?

Prima che suo nonno cadesse in quell’ultimo sonno d’ospedale, Francesco aveva smesso di guardarlo con gli occhi della quotidianità, lo andava a trovare ogni giorno, lo sentiva stanco e spossato, vedeva che la luce nei suoi occhi era cambiata, e fu proprio durante l’ultima cena insieme che guardandolo negli occhi pensò tra sé a questa domanda.

Quando uscì da casa dei nonni il sole riempì il cielo di un tramonto rosso-viola, e qualcosa di quei colori gli ricordò lo sguardo del nonno rivolto alla finestra, a quello che sarebbe stato uno degli ultimi tramonti insieme, non lo resse quell’impatto emotivo, e si fermò per strada a piangere come un bambino.

Era passata soltanto una settimana, i suoi erano appena partiti per riportare la salma nella terra natia del nonno, ma in così poco tempo quella vicenda gli aveva cambiato la vita, riempiendolo di interrogativi che non basterebbe una vita intera per rispondere.

È più facile forse adesso comprendere perché di alzarsi dal prato Francesco non ne avesse proprio voglia, più difficile forse è comprendere perché continuasse ancora imperterrito a perdere tempo e a piangersi addosso. Perché forse lo schiaffo che attendeva lo aveva già ricevuto in un reparto delle cure palliative una settimana prima.

L’unica cosa che riuscì a farlo tornare vigile fu il suono del suo telefono, che si era scordato di mettere offline. Si alzò di scatto, corse bagnato verso camera sua e afferrando il telefono senza leggere il nome rispose. Pronto? Era Tommaso, che lo rimproverava di averlo ignorato per mezza giornata. Scusa, stavo dormendo, rispose Francesco, e Tommaso, che lo conosceva meglio di chiunque altro, capì subito la situazione e si ammorbidì. Si diedero appuntamento per il giorno successivo, e quando Francesco buttò giù decise che non sarebbe andato a comprare le uova, ma si sarebbe arrangiato con ciò che era rimasto nel frigo, non sarebbe andato quella sera a una riunione di cui non gli importava niente, e soprattutto non avrebbe risposto a nessun altro se non Sara.

La chiamò e le chiese come stesse e cosa avesse fatto durante il giorno. Un po’ di Netflix e un bagno al mare, rispose, d’altra parte che altro si può fare d’agosto quando si è in ferie?

Alla domanda “tu invece che hai fatto oggi?” Francesco non seppe rispondere, prese tempo e cambiò argomento. Si lasciarono con la promessa di vedersi a cena la sera successiva, e ovviamente l’intuito di Sara non la tradì. Così mi racconterai che ti prende in questo periodo – gli disse lei – lo sai che a me puoi dire tutto, concluse. Il problema vero non è il parlare di sé, il problema è che certe volte è difficile soprattutto capire quale sia il problema di cui parlare, specie quando riguarda se stessi. Perché se è vero che Francesco non smaniava dalla voglia di vedere Sara è altrettanto vero che con gli altri non era da meno: il problema non era verso di lei ma riguardava lui.

Messo il telefono in modalità offline Francesco aprì il frigo e si accorse che era veramente troppo vuoto, anche soltanto per un boccone improvvisato. Aprì anche le dispense in cerca di qualcosa di commestibile ma non trovò niente. Guardò il tavolo della cucina in cerca di ispirazione, e il suo sguardo si fermò sul mazzo di chiavi in un angolo del tavolo. C’erano le chiavi di casa sua e quelle di sua nonna, che era partita per il viaggio insieme ai suoi genitori per dare l’ultimo saluto al marito. Sicuramente, pensò Francesco, il suo frigo avrebbe avuto ancora qualcosa di commestibile per lui, e poi non gli dispiaceva affatto l’idea di tornare a casa del nonno a dare un’occhiata in cerca di qualcosa da tenersi come ricordo.

In meno di quindici minuti era sul pianerottolo dei nonni, entrò senza esitare. La casa era piuttosto calda, ma Francesco accese il condizionatore e si diresse verso il frigo, dove trovò più cibo che a casa sua, c’erano soprattutto le uova, e avevano un’altra settimana buona prima di scadere.

 

Mangiato l’ultimo boccone del bianco d’uovo fritto, Francesco mise le mani in tasca per prendere il telefono, ma si accorse di averlo scordato a casa. Non gli era mai successo prima in vita sua, no, al contrario Francesco passava intere giornate piantato davanti a Facebook, Instagram, WhatsApp e così via. Amava scrivere, fare foto, montare video, fare grafiche, editare il tutto e caricarlo sulle sue pagine.

Gestiva anche altre pagine social abbastanza note, un po’ di roba di politica, un po’ di intrattenimento generico, ma aveva rinunciato a tutto dopo la morte del nonno. Da allora non aveva più pubblicato neanche una sola foto, non aveva più letto una pagina di giornale e soprattutto aveva buttato giù ad ogni chiamata che richiedesse la sua assistenza o il metterlo al corrente delle ultime novità. Passava quasi due-tre ore al giorno a telefonare, altrettante sui social network e qualche ora meno su WhatsApp, che con il tempo aveva imparato a disprezzare. Ma appena aveva un momento libero Francesco scriveva, lo faceva per disintossicarsi dai veleni della sua vita, lo faceva per sfogarsi, fatto sta che lo faceva con passione e dedizione, e soprattutto in modo costante.

Aveva già pubblicato qualche racconto e un libro, ne aveva iniziati altri due ma li aveva lasciati entrambi da parte, per scrivere quello che considerava “il suo capolavoro”. Aveva iniziato a scriverlo deciso, mettendo su carta tutto quello che aveva in mente, cinquanta, cento, centocinquanta, duecento pagine… E poi d’improvviso si era bloccato. Chi sono io per pensare che questo libro valga più di altri? Oggi la scrittura è in crisi, i libri non vendono. Per pubblicare bisogna pagare. Scrivere è una passione, non un lavoro. Non sfonderò mai. Questi erano i pensieri che lo avevano afflitto, e contemporaneamente c’era qualcos’altro che lo tormentava: lo svolgimento. Si era bloccato e non sapeva più se quello che aveva scritto andasse bene, se fosse il caso di ricominciare da capo oppure modificare qualcosa.

Il libro parlava di un ragazzo che finita l’università parte per un viaggio da solo per cercare di capire chi è e cosa vuole fare nella sua vita. Nel percorso affronta tante peripezie che lo aiutano a trovare il senso di tutto, e qui c’era l’intoppo: Francesco non sapeva dove voleva arrivare nella sua vita, come poteva saperlo il personaggio del romanzo, cioè una sua diretta creazione? No, non era più cosa da farsi pensò nell’accorgersi di aver lasciato il telefono a casa.

I suoi amici sicuramente si sarebbero arrabbiati della sua assenza alla riunione, era stata fissata da settimane, e lui negli ultimi tempi si era defilato da quelle che fino a poco prima erano le sue responsabilità. Non era stata la morte del nonno, ma una chiacchierata sulla riva di una scogliera con Tommaso a fargli venire voglia di prendere un pausa. Io non voglio sbagliare strada ora che sono in un periodo di cambiamento della mia vita, voglio giocare bene le mie carte, disse il suo amico. Per fare delle buone scelte Tommaso sosteneva che fosse importante andare a fondo delle cose, capirsi e trovare la propria strada. Quel discorso colpì Francesco a tal punto che vennero da lì l’ispirazione per il libro e i primi dubbi su tutto. Poi arrivò la morte la morte del nonno, e tutto il resto perse di significato per Francesco.

Chi era Francesco? Cosa voleva dalla sua vita? Che scelte doveva fare per vivere felice? Tutta questa pesantezza ricadde su di lui in un momento difficile, e con una scelta potenzialmente infinita di possibili strade da prendere.

 

Quando Francesco posò i piatti nel lavello, gli venne istintivo entrare nella camera del nonno, alla ricerca di un qualcosa che gli desse il coraggio di tirarsi su. Quello era il punto del giorno peggiore per lui, perché il passaggio da crepuscolo a notte lo scoraggiava parecchio, rendendolo atterrito e incapace di provare emozioni diverse da un’insignificante sensazione di vuoto. Così si dedicò ad altro: entrò e trovò gli armadi chiusi, il letto rifatto, i comodini in ordine con le lucine di una volta, quelle preziose e delicate.

Aprì la prima anta dell’armadio e passò la mano in mezzo ai vestiti riposti accuratamente, come fossero ancora indossati da qualcuno: l’odore del nonno non c’era più, aveva preso il sopravvento il legno pulito con un qualche prodotto chimico apposito. In basso, sotto i vestiti c’erano dei cassettoni con gli album di foto, il nonno aveva scritto nelle sue volontà testamentarie che fossero lasciati in eredità a Francesco. Non che gli dispiacesse, però aveva trovato strano l’averlo specificato nel testamento.

Aprì i cassettoni e prese il primo album “Vacanze estive 2001”. Se lo ricordava perfettamente, fu la sua prima volta in Sicilia, nella terra del nonno.

Si sedette sopra il letto, e con cura iniziò a sfogliarlo lento. L’album iniziava con una sua foto sdraiato in macchina dei nonni, erano appena arrivati giù in Sicilia, dopo 15 ore di viaggio, e per lui quello era un altro mondo, tutti parlavano una lingua che aveva sentito soltanto dai suoi nonni o nei film, ma il dialetto era più stretto di quel che pensava. Gli sembrò di essere un estraneo in una terra che avrebbe dovuto sentire sua. E invece quella terra pian piano imparò ad amarla, e quando i nonni furono troppo vecchi per viaggiare con loro, lui ci tornò quasi ogni anno con i suoi genitori. La imparò ad amare a tal punto che è lì che conobbe quella nostalgia che in Africa chiamano “mal d’Africa”, che altro non è che il desiderio di possedere per sempre tanta bellezza, desiderio che si mischia con la sensazione che quel posto non ci appartenga fino in fondo. No, quel posto non era casa sua, prima o poi sarebbe dovuto tornare indietro, e questa sensazione lo rendeva più inquieto di quanto già non fosse. Probabilmente Francesco imparò in Sicilia cosa fosse l’inquietudine, e da quel giorno quella sensazione non lo lasciò più, un pezzo di Sicilia se lo portò via con sé a casa. Il mal di Sicilia.

Girate le prime pagine si imbatté in alcune foto mancanti, al loro posto c’era una scritta, sempre uguale per tutte le foto: “cofanetto”. Che strano, pensò Francesco, non ci aveva mai fatto caso prima d’ora. Così spostò tutti gli album, svuotò il cassetto ma non trovò nessun cofanetto, aprì gli altri armadi e tutti i cassetti della casa, ma del cofanetto nessuna traccia. Che fosse un errore? Suo nonno era troppo metodico per scrivere frasi prive di significato, quella dicitura doveva avere un senso.

Poi d’improvviso si ricordò di una cosa: quando suo nonno possedeva una pistola per lavoro la smontava sempre prima di andare in vacanza, metteva i pezzi sopra l’armadio, poche piccole parti nei cassetti in cucina e infine un pezzo se lo portava con sé. Era l’unico modo che aveva per essere sicuro che nessuno gliela prendesse.

Allora Francesco prese la scala, guardò sopra l’armadio e con un sospiro di soddisfazione la vide lì: un piccolo scrigno di ebano scuro, doveva essere quello il cofanetto. Lo prese, e una volta appoggiato sul letto vide che aveva una serratura chiusa, allora pensò subito alla cucina, aprì tutti i cassetti ma non trovò niente. Ma non si arrese, e tastò una ad una la parte superiore dei cassetti, e proprio tastando nel posto dove stavano le tovaglie pregiate, sentì cadere una piccola chiave d’ottone, era scocciata quasi in fondo. Con grande soddisfazione tornò in camera, infilò la chiave dentro il cofanetto di legno e dopo due scatti si aprì.

C’erano delle foto, alcune vecchie, alcune più recenti, in tutto una quarantina. Erano foto del nonno, di sua madre, di suo fratello ma soprattutto di Francesco. Dietro c’erano delle parole, come fossero cartoline o piccole lettere segrete. Francesco aveva il cuore in gola, prese la prima lettera, forse la più recente, e la lesse.

 

Ciao mio discreto compagno di vita, sembrano ormai passati secoli dal nostro ultimo incontro, e mi piacerebbe pensare che a ricevere queste cartoline sia ancora tu e non tua moglie. Quasi novantaquattro anni: complimenti! Io ancora non sono che sulla soglia degli ottanta e già sento questo mondo lontano. Tu sei l’unica ancora che sento tra me e il mondo, e la paura che tu possa andartene è viva costantemente. Che fine farà la nostra storia? A chi tramanderemo del nostro tesoro?

A fine agosto andrò a far visita a Padre Felice, forse per l’ultima volta, ho il sogno che tu mi raggiunga, ma forse hai ragione: attendere è è la più grande virtù della vita.

Ho la paura che ultimamente non ti interessino più le foto che mi hai regalato, i frammenti più importanti della tua vita, ma è solo un’impressione. Ho da restituirti ancora le ultime due foto e penso che sceglierò attentamente le parole da scriverti prima di farlo. Ci sentiamo presto.

Maria”

 

Francesco sfogliò velocemente tutte le lettere, ma il contenuto era stato cancellato con più freghi, erano rimaste solo le date: la più vecchia riportava quella del compleanno del nonno di sei anni prima, la più recente quella dell’ultimo compleanno. Altre cinque o sei avevano la stessa data, 3 settembre, ed erano state spedite dallo stesso luogo: “Santuario di Montagnone”. Chi era Maria che parlava con tanta tenerezza a suo nonno? Francesco era sorpreso, sconvolto, quasi terrorizzato da quello che aveva appena letto. Pensò di chiamare sua madre, ma non sono cose che si dicono al telefono, pensò allora di bruciarle e far finta di niente, ma non sarebbe servito neppure quello a scacciare via i pensieri nella sua mente.

Prese il telefono di casa di suo nonno e provò a chiamare il numero di Tommaso, che non gli rispose. Poteva provare con Sara, ma non lo fece. Tornò in camera dei nonni, posò lo scrigno e portò con sé quell’unica foto. La girò: nella foto si vedevano lui e suo fratello bambini abbracciati al nonno in una spiaggia.

Guidando per tornare a casa Francesco pensò a quelle parole, che riecheggiavano nella sua mente senza trovare una collocazione razionale, sapeva che ogni tanto, fino quasi al suo ottantacinquesimo compleanno, il nonno partiva per qualche weekend solitario in montagna, ma di un’amante non avrebbe mai sospettato. Possibile sua nonna non se ne fosse mai accorta?

Fu così che Francesco imparò a dubitare delle sue certezze.

Arrivato a casa si sedette davanti al computer e cercò il Santuario di Montagnone, poi prese il telefono e chiamò Tommaso di nuovo.

Che c’è? Rispose lui.

Ti va di fare un viaggio? gli chiese Francesco.

Dove?

A Montagnone.

E dov’è?

È in montagna, ci prendiamo qualche giorno di stacco.

Non posso lo sai: il cane, Martina e forse mi chiamano a Milano per un altro colloquio.

Ti ricordi l’altra sera quando dicevamo che non abbiamo più fatto un viaggio noi due… Beh questa potrebbe essere la nostra occasione… D’altra parte è la nostra ultima estate prima di fare sul serio.

Non so…

Partiamo domani e torniamo presto.

Tommaso non rispose.

Penso a tutto io, porto la tenda, ci metto anche la mia auto.

Non so, non puoi chiamarmi alle nove e propormi di partire così.

Perché no? Facciamo un’avventura come ai vecchi tempi, non prenotiamo niente e dormiamo dove capita.

Va bene, d’accordo, facciamolo. Però scegliamo un bel posto.

Fidati di me.

Perché proprio lì?

Te lo spiego domani… Un’altra cosa: lascia il telefono a casa.

E Sara di questo che dice?

Sara è d’accordo, mentì Francesco.

A che ora vengo da te?

Vieni alle otto o poco dopo.

Dove hai detto che andiamo?

A Montagnone, non partiamo da lì, ma è lì che arriveremo.

Porta uno zaino leggero, pochi vestiti, il sacco a pelo, una giacca, un impermeabile e scarponi da trekking. Tenda, bustine Knorr e fornellino li porto io.

Facciamo come ai vecchi tempi scout?

Esatto.

Dimmi un po’, ma è successo qualcosa?

Domani ti spiego.

 

La mattina successiva Francesco si alzò in ritardo, fece lo zaino di corsa e aspettò Tommaso. Quando lo vide arrivare con lo zaino in spalla e ai piedi gli scarponi da trekking, prese il telefono e scrisse un messaggio a Sara:

“Amore devo partire in montagna con Tommy, non posso spiegarti tutto adesso, ma lo faccio per me. Scusa se non te l’ho detto prima, spero che tu mi capisca. In ogni caso ricordati che ti amo e ti amerò per sempre. Non mi cercare, lascio il telefono a casa. Avremo modo di chiarirci.”

Poi Francesco spense il telefono, caricarono gli zaini in macchina e partirono.

Fu così che iniziò la loro avventura verso Montagnone, nessuno dei due immaginava dove li avrebbe portati.

 

Per leggere la seconda puntata cliccate qui.

 

La rubrica Storie brevi è a cura di Simone Bacci, per leggere i suoi libri cliccate qui

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