I Duellanti di Joseph Conrad
Di Joseph Conrad il mondo conosce a memoria la sua opera più nota, “Cuore di Tenebra”, romanzo breve, o racconto lungo, lo si indichi e consideri come si vuole, di ambientazione marinaresca capace di regalare suggestive descrizioni di tribù indigene africane con i loro costumi e tradizioni contrapposte ai protagonisti di origine inglese; eppure Conrad ha scritto molto altro oltre a questo libro, e purtroppo gran parte della sua produzione è ancora assente dagli scaffali delle librerie italiane o dalle biblioteche più famose. Molti suoi lavori si possono trovare con facilità in lingua originale, o tradotti in francese, mentre tante altre storie si possono gustare solo attraverso le svariate rappresentazioni a cui, con gli anni, sono state sottoposte.
Una di queste è proprio “I Duellanti”, una storia francese scritta in inglese da un polacco, da cui è stata realizzata una pellicola di grande successo nel 1977 diretta dal giovane Ridley Scott (regista de Il Gladiatore, Alien ed altri famosi capolavori della settima arte) e di cui il pubblico livornese del Goldoni ne ha vista in scena la trasposizione teatrale con Alessio Boni e Marcello Prayer.
Di fatto, “I Duellanti”, non è che un duello, una sfida, una collisione tra due meteore appartenenti allo stesso universo, ma dalla forma e compostezza completamente diverse, le quali una volta incontratesi non fanno che continuare a inseguirsi, quasi fossero costrette a correre l’una dietro all’altra o sentissero la necessità di continuare a battersi fino alla distruzione totale.
Due uomini: Gabriel Florian Feraud, guascone iroso e annoiato, e Armand D’Hubert, posato, sofisticato ed affascinante uomo del Nord, entrambi soldati dell’esercito di Napoleone, il più grande esercito dell’Ottocento, e tutti e due scontenti, desiderosi di qualcosa di più di quello ottenuto dalle loro vite, pronti a far risvegliare nei loro cuori quella tempra guerriera che può portare solo alla follia, ciechi alle gioie dell’esistenza e convinti d’essere predestinati a diventare l’uno l’avversario dell’altro, in uno scontro fatale e leggendario come quello tra Achab e la Balena Bianca di Melville; nemici di spada e straordinari uomini d’armi, superstiti di lunghe campagne fatte fino ai confini del mondo, sudditi convinti che la morte possa liberarli dal nemico che alberga in loro, da quella pazzia omicida d’altri tempi, la quale, una volta cessata, potrà concedere a quest’ultimi la pace che cercano.
Un dramma che si riflette non solo all’esterno, nello scontro infinito tra i due, ma anche all’interno dell’animo umano: sia D’Hubert che Feraud, infatti, devono fare i conti con il lato opposto della loro personalità, che vedono proiettarsi nell’avversario vero, in carne ed ossa; ma l’avversario vero in realtà non esiste, anzi quello sei proprio tu. Egli anzi rappresenta una scelta: se decidi di far riemergere una parte di lui, magari un desiderio vietato che non ti vuoi negare, devi necessariamente rinunciare a una parte di te stesso: non solo ai rami secchi, il che sarebbe più facile, ma anche a quelli fioriti. Una scelta scomoda, ma che ti fa crescere. Questo è “I Duellanti” e tali sono le premesse dello spettacolo che vede Alessio Boni nei panni di D’Hubert e Marcello Prayer nelle vesti di Feraud: entrambi di bella presenza sul palco, si destreggiano in una lotta senza fine, si preoccupano di restituire al pubblico le contraddizioni e la volontà di combattere dei loro personaggi, ma non riescono appieno a infierire il fendente mortale al pubblico, lasciando semmai più spazio a una sorta di narcisistico auto-compiacimento, complice anche una drammaturgia spesso concentrata più su un’ estetica del duello che sul duello in sè.
Resta comunque un lavoro non facile quello di mettere in scena un romanzo complesso, ricco di risvolti e ambientato in un mondo diverso dal nostro: fattori questi a cui è dovuta una cura minuziosa e molto attenta ai particolari di scena per far sfuggire il meno possibile allo spettatore. Una trasposizione, adattata da Francesco Niccolini, che non a caso gode di scenografie, a tratti esuberanti, a tratti suggestive, curate con grande meticolosità, a cui si aggiunge un superbo utilizzo delle luci, che immergono lo spettatore nella Francia del 1800 fin dalle prime battute. A soffrire, soprattutto in determinati, forse decisivi frangenti, è appunto la drammaturgia, che proprio verso la conclusione dimostra di perdersi e appesantirsi, oltre che inchiodare la coppia duellante Boni-Prayer.
Considerevoli, va notato, sono alcune trovate che vedono coinvolti svariati elementi dai contorni quasi più cinematografici che teatrali, come ad esempio l’utilizzo della musica (dal vivo) durante uno dei primi memorabili duelli, capace di dettare il tempo e dare la tensione necessaria per rendere il pubblico partecipe di quanto sta per accadere sul palco; mentre l’effetto rallenty, sfruttato nella parte centrale della storia, accompagnato da una voce fuori campo, la quale contribuisce a scandire il passaggio dei giorni e delle ore, si rivela una mossa tanto azzardata quanto funzionante ai fini del racconto, donando quella giusta empatia e dilatando i tempi quel tanto che basta da conferire al combattimento quell’alone leggendario di cui è intriso fin dalle prime battute.
Ciò che, come detto, non funziona al meglio è la parte finale: la quale, forse, sarebbe stata più facile da assimilare qualora l’opera fosse stata divisa in due momenti precisi. Rimanendo, infatti, su un atto unico, si percepisce un repentino cambiamento tra una prima parte ricca di furore, dal sapore quasi giovanile, dove ad avere la meglio sono le passioni e l’animo irrequieto dei due protagonisti, ed una seconda più ragionata, rilassata, dove i dialoghi, inevitabilmente meno brillanti e frizzanti, la fanno da padrone: rispetto all’arroganza ed al ritmo, la decadenza e la lentezza hanno nettamente la meglio. E’ uno stacco potente e incisivo, che arriva fino al pubblico, ma che purtroppo lo allontana al tempo stesso, poiché a voler contestualizzare l’opera e allo stesso tempo sovraffollare di informazioni la scena, l’impressione è quella che si sia perso un po’ della magia che trionfa in ogni momento nella prima parte della vicenda.
“I Duellanti” è quindi uno spettacolo che gode di una doppia personalità, coerente con i personaggi di cui vediamo le vicissitudini: a collidere non è solo la storia leggendaria di D’Hubert e Feraud, ma anche la messa in scena, che propone una prima parte eccitante, coinvolgente e provocante, ad una seconda che vive dei suggestivi riflessi della prima, che si pone allo spettatore come un processo di decadenza ove a venir meno sono anche i personaggi e il coinvolgimento emotivo del pubblico, forse anch’egli mai sazio e sempre desideroso di nuovi duelli e sangue da versare e vedere.
Recensione a cura di Claudio Fedele e Nicola Pomponio
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