(A questi due link uno e due potete trovare le prime due parti di questo approfondimento)
Se mi si chiedesse di raccogliere in due parole il significato dell’album risponderei in questo modo: “ Siamo individui viziati ed inconsolabili, abituati ad avere tutto ed ad accontentarsi di niente. Forse non è colpa di nessuno; siamo soltanto cresciuti così.”
Tutto il pubblico si è accorto che in Glamour qualcosa è cambiato. E non tutti sono rimasti contenti. Quel che s’aspettavano gli ascoltatori era un album che continuasse a parlare di quella realtà impersonale, di quelle storie scarne di sentimenti e ricche di etichette, come nel primo album. Invece “Glamour” assume una forma più personale, più sentimentale e in certo senso più realistica (in quanto libera dallo straniamento della caricatura).
L’album inizia con un precetto teso da una parte a ribadire la sua volontà di raccontare “fine a se stessa” e dall’altra a convincere l’ascoltatore ad ignorare quel sentimento caotico ed angosciante che aveva descritto nel primo album e concentrarsi di più su quel che “è il reale” al di là delle caricature. L’intento sembra quello di restituire al pubblico un “po’ di buonsenso”. Utilizza un precetto che sembra anche attuale nel contesto del dibattito filosofico contemporaneo, cioè la diatriba fra realisti ed anti-realisti, oggi accesissimo: “Non mi commuovono le storie coi sensi di colpa/,non m’interessa l’opinione di chi la sa lunga:/io voglio raccontare e che mi si racconti/ perché anche il poco che sappiamo è meglio di niente./ E sarà dura far scrollar di dosso questa idea/ che a nominare ciò che esiste non si dice nulla/ ma l’esistente è anch’esso pane per i nostri denti/ non si può correre sempre e soltanto dietro ai sentimenti./”.
Le tematiche più affini al precedente album si ritrovano nella canzone “Storia di un artista” , in cui si ripercorre la storia di Piero Manzoni per paragonare la sofferenza che egli nutriva nel trascorrere una vita d’artista nell’alienante Milano al sogno “moderno” di molte persone (alienate, a mio parere) che vorrebbero vivere in quella città per essere a contatto con il mondo “della moda, delle muse e degli artisti”, mondo della T.V. commerciale, dei Vip e delle feste di élite.
Molti inorridiranno nel sentir dire che secondo me “Come Vera Nabokov” è una delle più belle canzoni d’amore che siano state scritte negli ultimi tempi. Lo è perché quel che è centrale in questa canzone, al di là dello squallore, delle litigate e delle “tre o quattro cose del cazzo” scritte su Whatsapp è una promessa d’affetto, una richiesta d’aiuto semplice come “tagliare nel piatto la carne da mangiare” o una consolazione “ da quando ho pure lavoro e la gente che amo sta male io da solo non ci riesco più”. Ed a sorprendere è che queste richieste d’affetto vengano dall’uomo, dal sesso erroneamente definito “forte”. Sono richieste che ne mettono a nudo le sue debolezze e le sue richieste di conforto e di restituzione del senso pratico di cui spesso sono maestre le donne. E’ una canzone che guarda alle cose semplici, parla d’affetto in un mondo che apparentemente sembra “ribellarsi” alle storie d’amore; una canzone che guarda alla quotidianità e, andando oltre la monotonia, ne riscopre un significato ulteriore: “e non è avere gli esami e non è avere vent’anni fidati è qualcosa in più!”.
Il ciclo di canzoni tra rimpianti (come in Non c’è niente di Twee), nostalgie (come in Corso Trieste) e riflessioni vagamente leopardiane (come in S.Lorenzo), è chiuso con molta efficacia da Lexotan. Ecco: Lexotan è una canzone che vuol ridare dignità alla felicità, che vuole tracciare i confini, tra quella vera e quella che agogniamo influenzati da un contesto che ci spinge a volere di più di più senza orizzonti né stabilità.
Ma è una canzone malinconica, perché si, è vero che nel guardare la “vera felicità” sembrano crollare tutte le illusioni, sembrano disfarsi i grandi sogni di notorietà, di ricchezza e di emergenza sociale. La felicità è descritta come “poco fotogenica, stupida,improbabile,sciocca,ridicola e patetica”, attributi che sembrano calati dall’alto, calati da un mondo sociale che è pieno di belle immagini e con la bellezza di quelle confonde la forma della propria felicità. Ma Niccolò ci dice che la felicità è quella e malgrado tutto esiste. La lirica è concentrata nel ribadire l’ indipendenza dell’io dai farmaci, dalla psicoterapia, la sua vittoria sugli attacchi d’ansia e sulle stesse sconfitte di tutti i giorni. I rimedi proposti dal mercato come soluzioni affrettate seppur troppo spesso inefficaci, infatti, crollano d’innanzi alla stabilità del soggetto, che si consola con la “stupida felicità” e in questa ritrova il senso del suo vivere. Ed è per questo che l’album non piace, non piace poiché riacquistare la propria stabilità e la propria identità è una grande presunzione per il senso comune. Ma Niccolò, in arte I Cani, in questo disco, ed in particolare in quest’ultima canzone, sembra aver riacquistato la sua “normalità patetica”, “la sua felicità patetica” (almeno sul piano artistico), in un mondo che è in ricerca costante della diversità, in un mondo in cui le identità vogliono divergere anche a costo di perdere sé stesse.
Vuole forse dirci che il modo migliore per divergere, nel caos della nostra società, è essere “normalmente sé stessi” e “normalmente felici”?
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