Un titolo insolito, raro e affascinante per chiudere la stagione lirica 2016/2017 del Teatro Verdi di Pisa, retaggio della Scuola Napoletana: la Didone abbandonata di Leonardo Vinci, opera cui torna in scena uno dei soggetti classici più amati dal pubblico di ogni epoca e cioè il famoso episodio virgiliano di Enea e Didone. Quello di domenica 16 marzo è stato un appuntamento gravido di aspettativa e interesse non solo per la chiusura della stagione odierna e per la rarità dell’opera in cartellone, ma anche per la presenza della prestigiosa Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, per la prima volta ospite dello storico teatro pisano. La presenza dell’orchestra fiorentina non è casuale, difatti l’allestimento è del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e coprodotto dal Teatro Verdi, con la collaborazione di Auser Musici.
È proprio la produzione a segnalarsi immediatamente per l’eleganza e la raffinatezza dell’allestimento, cui si farebbe un gravissimo torto nel volerlo valutare a “compartimenti stagni” perché il gran merito che va assolutamente riconosciuto alla regista Deda Cristina Colonna è l’essere stata in grado di tessere un sapiente intreccio in cui scene, costumi, luci e le splendide ombre della Compagnia Artetracce non vengono a trovarsi su piani diversi ma si compenetrano e si fondono in un intenso rapporto dialettico, un rapporto dove le essenziali sagome di un tempio a tholos o di edifici turriti assieme a un’arpia di pietra e a una futuristica ma funzionale struttura metallica sono sufficienti per evocare e sostenere l’illusione di un’epoca sospesa nel tempo ma contemporaneamente emersa da un remoto passato. Naturalmente tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’eccellente lavoro dello scenografo Gabriele Vanzini e del lighting designer Vincenzo Raponi, per non parlare degli splendidi costumi realizzati da Monica Iacuzzo, tanto minimali quanto archetipici.
Eccezionale anche la prestazione del cast artistico. A prescindere dalle considerazioni che seguiranno a breve sui singoli interpreti, è più che doveroso sottolineare come ognuno di questi sia stato assolutamente all’altezza del proprio ruolo, soprattutto riflettendo su un singolo ma cruciale dettaglio: i numeri musicali di questa opera – a parte qualche brano strumentale – sono solo arie o recitativi accompagnati, ma comunque sempre e solo brani solistici, e riuscire a sostenere il peso di tre atti interamente costruiti esclusivamente su arie e oltretutto mantenere sempre una dizione più che chiara (tanto da rendere i sopratitoli praticamente inutili) è un risultato che merita sinceri elogi.
Bravissime le giovani Marta Pluda e Giada Frasconi, interpreti rispettivamente di Araspe e Osmida, provenienti dalle nuove generazioni di cantanti che si stanno formando all’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino, l’Accademia di Alta Formazione dell’Opera di Firenze, e pur avendo interpretato ruoli di contorno, hanno sicuramente lasciato al pubblico un buon ricordo e una solida speranza per il futuro.
Certamente rimarrà a lungo scolpita nella memoria anche la performance del tenore Carlo Allemanno, un pius Aeneas che pare essersi materializzato direttamente dalle pagine del poema virgiliano. Allemanno ha saputo coniugare intelligentemente la propria presenza scenica, davvero ottima, con un timbro tenorile davvero inconsueto: non sgargiante ma umbratile, ricco di molte sfumature e comunque potente e spavaldo, insomma un timbro da vero eroe epico come ha sottolineato la superba interpretazione dell’aria Se resto sul lido.
Tutt’altro che magnificente ed epico il grande antagonista – Iarba, re dei Mori – ma quando viene impersonato da un autentico fuoriclasse come il controtenore Raffaele Pe è naturale che attiri immediatamente su di sé l’attenzione dell’intera platea. Istrionico, graffiante, mutevole e abilissimo nel plasmare la propria vocalità, ha dato più volte prova nel corso della rappresentazione di essere perfettamente a suo agio nell’affrontare le varie sfaccettature del suo personaggio e la cosa assume un certo peso se si riflette sul fatto che, assieme alla protagonista Didone, Iarba ha il maggior numero di arie e le sue sono di gran lunga le più ricche di artifici e quelle in cui si incontra la maggior floridezza melodica e persino un’orchestrazione più speziata (al personaggio di Iarba è riservata, ad esempio, l’unica aria che preveda agli strumenti dell’orchestra l’aggiunta delle trombe). È quindi più che corretto affermare che Pe abbia assolutamente reso giustizia al proprio personaggio, tanto che in più occasioni gli sono stati tributati dal pubblico applausi a scena aperta.
Anche il personaggio di Selene, la sorella di Didone, ha una precisa caratterizzazione vocale, nello specifico più improntata a momenti brillanti e virtuosistici, caratterizzazione che si lega perfettamente alla squisita vocalità del soprano Gabriella Costa con quella sua voce piacevolissima, sottile e flessuosa, che apparentemente senza fatica riesce a eseguire arie tutt’altro che semplici come Se ti lagni sventurato del tuo fato, così satura di ornamentazioni, abbellimenti e colorature.
Eccellente la Didone di Roberta Mameli, un soprano che non ha bisogno di alcuna presentazione e autentica specialista del repertorio del Sei-Settecento. La sua grande conoscenza dello stile e della prassi esecutiva del Settecento le hanno permesso di individuare (e la sua innegabile bravura di eseguire) le più efficaci tecniche espressive per caratterizzare il personaggio della regina cartaginese. Riflettendoci un po’ sopra, ci si accorge che il problema non è da poco: in tutta l’opera l’unico personaggio con un timbro maschile è Enea, pertanto esiste il concreto rischio di ritrovarsi con una parata di voci femminili tutte identiche che per tre ore non fanno altro che imitarsi le une con le altre. Invece la Didone della Mameli si pone immediatamente come un personaggio totalmente differente, da una parte sicuramente grazie all’accortezza compositiva di Leonardo Vinci, dall’altra all’intelligenza interpretativa della Mameli che ha privilegiato un piglio fortemente patetico (nel senso del pathos) e le iridescenti sfumature della mezza voce, ad esempio nella splendida aria Se vuoi ch’io mora mio dolce amore, dove peraltro si è posto l’accento su quel cromatismo così sofferto e dolente. Un personale apprezzamento va alla sua interpretazione del recitativo accompagnato che conclude l’opera, compositivamente geniale ma altrettanto difficoltoso dal punto di vista esecutivo perché laddove lo spettatore si aspetta una grandiosa aria conclusiva l’autore oppone per converso uno spiazzante recitativo carico di angoscia e suspance, ma non è assolutamente facile riuscire a comunicare tanto bene queste forti emozioni in un recitativo inframmezzato da un arioso, cosa che invece Roberta Mameli è riuscita brillantemente a fare.
Non me ne vogliano i cantanti, ma i veri “vincitori” di questa recita di chiusura di stagione sono stati la formidabile Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e la direzione del M° Carlo Ipata, attento tanto al dettaglio del colorito e dell’ornamentazione quanto all’insieme generale. La bacchetta del M° Ipata e l’alta levatura artistica dell’Orchestra hanno prodotto quel piccolo grande miracolo di un suono dall’eleganza michelangiolesca, sempre perfettamente equilibrato ma meravigliosamente ricco, deciso e maestoso.
Insomma, una rappresentazione di elevatissima qualità, che – a dispetto di quanto qualcuno potesse preventivare – ha richiamato nella sala grande del Verdi un’ampio e intelligente pubblico che si è lasciato stupire e meravigliare da un’opera quasi scomparsa dai cartelloni moderni, che però cela in sé molte sorprese (penso ai molti appassionati di musica vocale che avranno riconosciuto, soprattutto verso la fine del terzo atto, molte frasi del libretto della cantata La morte di Didone di Rossini, che rielabora parte del testo di Metastasio) e forse anche per questo – oltre che per la strepitosa performance degli interpreti – ha più volte dimostrato il proprio apprezzamento per questo titolo, fino all’ultima chiusura del sipario.
Photocredit: Simone Donati – TerraProject/Contrasto
Luca Fialdini
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