Introduzione
Spesso la modernità tra la superficialità dei social network e le fonti di informazione più o meno esatte (e di parte) ci porta a dare giudizi affrettati e poco documentati, penso invece che prima di esprimerci, specie riguardo argomenti delicati, dovremo documentarci a fondo.
Quando si parla di un conflitto così duraturo e così denso di cause storiche, politiche, culturali, religiose e sociali non ci si può limitare a dire “ha ragione la parte che sta subendo più morti”, “C’era prima Israele”, “Israele difende gli interessi del capitalismo”, “Gaza vuole soltanto stare in pace”, “Netanyahu assassino”, non si può neppure dare la colpa a chi stavolta ha iniziato per prima. C’è un ordine logico preciso da seguire per ripercorrere le tappe di questo conflitto che non può essere ignorato per pronunciarsi in maniera consapevole sull’argomento.
Sono questi i motivi per cui prima di scrivere questo articolo ho voluto fare una ricerca approfondita, e il risultato è questo riassunto storico sul conflitto israelo-palestinese, che sarà diviso in due parti per fornire al lettore una conoscenza di tutti gli elementi storici necessari per comprendere da dove nasce questo conflitto e cosa sta succedendo oggi (con la cosiddetta “Operazione margine protettivo”). Lascio al lettore ogni tipo di valutazione postuma.
Parte prima: Dalle origini al 1947
Tutto inizia da due realtà molto complesse, da una parte le trasformazioni socio-politiche del Medioriente, dall’altra la nascita del Movimento Sionista. Prima di analizzare l’evoluzione dei fatti secondo un ordine cronologico è bene lanciarsi in una breve premessa sul Movimento Sionista e sulla storia della Palestina fino alla prima guerra mondiale. Successivamente i fatti saranno narrati rigorosamente in ordine cronologico, mantenendo una particolare attenzione a spiegare le principali dinamiche politiche, storiche, sociali e religiose.
Breve storia della Palestina
Palestina è la denominazione romana della provincia che risale all’epoca dell’imperatore Adriano, nel 135 d.C., quando il nome ufficiale “Syria Palaestina” sostituì il precedente “Iudaea” includendo anche altre entità amministrative: Samaria, Galilaea, Philistaea e Perea. Il cambio di denominazione del governatorato suggerisce la rottura politica fra l’impero e le autorità locali presso gli Ebrei (o Giudei).
Il nome Palestina era tuttavia un toponimo già noto, introdotto da Erodoto e utilizzato dai Greci. La Palestina corrisponde più o meno agli attuali stati di Israele e Giordania Occidentale, è delimitata a Nord dal Libano e a Sud dal triangolo del Sinai.
La diatriba su quale sia il popolo che per primo abbia abitato la Palestina si perde nella notte dei tempi e non ci sono testimonianze certe, la prima fonte scritta è il Pentateuco, in questo libro della Bibbia secondo molti storici inglesi sarebbero indicati precisi numeri sugli abitanti ebrei in terra di Palestina, che si stabilirono in questa regione a partire dal 1200 a.C.
Numeri più certi sono quelli indicati da Tacito e da altri storiografi latini sulla base dei censimenti. Di sicuro c’è da dire che se anche gli arabi avessero sempre abitato la Palestina gli ebrei hanno avuto una presenza più costante nel corso del tempo fino al 638 circa. Molti storici sionisti sostengono che gli arabi non abbiano quasi mai abitato in Terra di Palestina nell’antichità.
Dal 586 a.C. in poi la Palestina subì diverse peripezie e nel corso del tempo venne dominata rispettivamente dai Babilonesi, Persiani, Ellenici e di nuovo Ebrei (nel 168 a.C.). Dal 63 a.C. fino al 476 d.C. passò sotto il dominio dei Romani, dove in seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Oriente rimase sotto il dominio Bizantino. Dal 638 in poi è passata sotto il dominio arabo ed è sempre rimasta dominata dagli arabi, fatta eccezione per brevi periodi di controllo cristiano durante le Crociate (XII secolo), per finire a far parte dell’Impero Ottomano nel XIX secolo.
Radici e sviluppo del Movimento Sionista fino alla prima guerra mondiale
Il sionismo è un movimento politico internazionale, nato alla fine del XIX secolo tra gli ebrei residenti in Europa, il cui fine era l’affermazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato ebraico. In questo senso, il sionismo è un movimento laico e nazionalista ebraico che chiede una patria specificamente in Palestina. Nel corso dei secoli, c’è sempre stata una corrente migratoria ebraica verso la Palestina, motivata essenzialmente da ragioni religiose. L’immigrazione sionista, di natura laica, è invece una conseguenza molto più tarda dell’emancipazione degli ebrei europei nel corso della rivoluzione francese (1791) e per tutto il XIX secolo fino alla rivoluzione russa (1917).
Il fondatore del sionismo è oggi considerato Theodor Herzl, un giornalista suddito dell’Impero austro-ungarico. Nel 1895 Herzl fu inviato come corrispondente del suo giornale a Parigi per seguire il processo denominato “affare Dreyfus” (ufficiale francese di origini ebraiche accusato di tradimento), esploso nel 1894, che fu accompagnato da una feroce campagna di stampa francese che riproponeva stereotipi antisemiti. In seguito a questa esperienza Herzl si rese conto che l’assimilazione e l’integrazione degli ebrei in Europa non aveva dato frutti e che gli ebrei avevano bisogno di un proprio Stato, dove poter vivere in pace e sicurezza lontano dai pregiudizi e dalle false accuse tipici dell’antisemitismo. Herzl si inserisce in una tradizione di pensiero di lingua tedesca cui sono vicine anche personalità come Albert Einstein. Questa tradizione è quasi compattamente parte della corrente dei “Sionisti generali” (ossia non affiliati a movimenti specifici) di ispirazione liberale. Le idee di Herzl si inseriscono in un movimento migratorio ebraico già in atto, causato, in Russia, dai pogrom degli anni 1881-1882 e poi degli anni 1903-1906. Secondo dati del 1930, dal 1880 al 1929 emigrano dalla Russia 2.285.000 ebrei, e, di questi, 45.000 in Palestina.
Herzl fece invano appello ai ricchi filantropi ebrei perché appoggiassero le sue proposte, ma scoprì la tradizione proto-sionista dell’Europa orientale, che egli ignorava e che lo sostenne.
Herzl avrebbe sviluppato la sua idea e l’avrebbe tradotta nel “Der Judenstaat” (Lo Stato degli Ebrei), un volume pubblicato all’inizio del 1896 senza conoscere gli scritti dei suoi predecessori e subito tradotto in varie lingue. All’immediato successo del volume e al dibattito suscitato Herzl fece seguire il primo Congresso Sionista Mondiale, che si tenne a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897, dove creò l’Organizzazione Sionista, il massimo organismo politico ebraico fino all’istituzione dello Stato d’Israele. L’Organizzazione Sionista funzionò fin dall’inizio secondo le regole della democrazia rappresentativa: gli iscritti (fin dall’inizio anche donne) pagavano una quota ed eleggevano delegati a regolari congressi in Europa, dove veniva eletto un esecutivo di 30 consiglieri, che a loro volta eleggevano il presidente.
Il Congresso era ed è soprannominato “il Parlamento del Popolo Ebraico”: nell’Organizzazione Sionista tutte le correnti sioniste (liberali, religiosi, socialisti) erano rappresentate, a tutti i livelli.
Non avendo ottenuto il sostegno ufficiale dell’Impero Ottomano, fino al 1917 l’Organizzazione Sionista perseguì l’obiettivo della costruzione di una patria mediante una strategia di immigrazione (aliyah) continua su piccola scala.
La seconda ondata migratoria (circa 30.000 persone) parte dalla Russia per la Palestina fra il 1904 e il 1914: c’erano stati pogrom dal 1903 al 1906, sostenuti dalla pubblicazione dei “Protocolli dei Savi di Sion”, falso documento segreto ebraico e vero libretto antisemita prodotto dalla polizia segreta zarista.
Con i fondi sionisti, e principalmente del Fondo nazionale ebraico, vennero acquistate terre dichiarate inalienabili da cui è esclusa la manodopera indigena; nasce una nuova nazione, con una propria lingua ed un’economia chiusa, da cui gli arabi sono esclusi. Altri si sistemano nelle città o ne fondano di nuove: caratteristico è il caso di Jaffa e Tel Aviv, Tel Aviv era infatti un quartiere di Qoffa, ma il massiccio insediamento ebraico crebbe fino a far diventare l’antica città di Qoffa un sobborgo della nuova Tel Aviv.
I chaluzim, i “pionieri” dell’esodo sionista, non portarono in Palestina solo la loro forza lavoro, la loro famiglia, la loro cultura, ma importarono l’idea europea di “Nazione”. Tra gli immigrati ebrei si diffuse anche l’uso della lingua ebraica, la quale, relegata all’ambito religioso da duemila anni, non era più usata quotidianamente.
I primi dissesti nell’Impero Ottomano fino alla Prima Guerra Mondiale
Nel 1914 la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano, nello specifico sul finire del XIX secolo il territorio palestinese faceva parte dei vilayet (governatorati) siriani dell’Impero Ottomano ed era a sua volta suddiviso in due Sangiaccati (province ottomane). All’epoca gli Ebrei costituivano una minoranza di 73.000 persone, integrata con le altre comunità etnico-religiose e, più in generale, con la situazione culturale del luogo. L’Impero Ottomano aveva dato segni di stasi culturale e di crescente disfunzione della sua, fino ad allora, efficiente macchina amministrativa e militare fin dal XVIII secolo, in diretta connessione con l’accelerazione dei processi d’industrializzazione in Europa.
La crescente potenza economica europea si espresse con una più accentuata volontà di ampliare i propri mercati a livello planetario. Come conseguenza logica si accrebbe il desiderio di controllare, direttamente o indirettamente, quelle parti del mondo ricche di materie prime che l’industria europea trasformava, oltre a creare più ampi mercati in grado di assorbire le sue merci.
Il modello ideologico vincente in Europa fu, a partire dai primi anni del XVIII secolo il nazionalismo, e anche l’Impero Ottomano pensò di seguire lo stesso tracciato europeo. Gli mancava però la necessaria audacia di avviare un analogo processo di laicizzazione e il nazionalismo ottomano non riuscì a fare a meno dell’apporto delle classi religiose.
Nel XX secolo la situazione ottomana era vistosamente peggiorata e aveva messo in allarme le stesse potenze europee che da tempo parlavano dell’Impero Ottomano come del “malato d’Europa”. Molti movimenti riformatori erano sorti nei territori ancora controllati dalla “Sublime Porta” per tentare di contrastare il processo di degrado politico, economico e culturale (ad esempio quello dei “Giovani Turchi”) ma per alcuni di essi l’intento principale da perseguire era quello, né più né meno, dell’indipendenza di stampo occidentale. Fra questi popoli anche Palestinesi, arabi e israeliti svolsero un ruolo importante per l’imminente divisione dell’Impero Ottomano.
Prima guerra mondiale e Mandato Britannico
Con l’esplodere della prima guerra mondiale e il coinvolgimento dell’Impero Ottomano, molti furono gli israeliti che decisero di lasciare la loro “Terra promessa” per scegliere mete diverse, innanzi tutto gli Stati Uniti, che garantivano migliori condizioni in termini tanto economici quanto di libertà civili.
La spartizione dei possedimenti dell’Impero Ottomano nella regione tra Gran Bretagna e Francia al termine della guerra, era stata già decisa nel 1916 con l’Accordo Sykes-Picot. Per l’area della Palestina l’accordo prevedeva: «Che nella zona marrone [la Palestina] potrà essere istituita un’amministrazione internazionale la cui forma dovrà essere decisa dopo essersi consultati con la Russia e in seguito con gli altri alleati e i rappresentanti dello Sharīf della Mecca».
Il riconoscimento agli ebrei emigrati dall’Europa, del diritto di godere di un focolare nazionale in Palestina fu dato dall’allora Ministro degli esteri della Gran Bretagna Arthur Balfour. Nel 1917 egli pubblicò la Dichiarazione Balfour, con cui la Gran Bretagna riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di “un focolare nazionale” (a National Home) in territorio palestinese, che venne interpretato dagli stessi come la promessa di un permesso per la costituzione di uno stato autonomo e indipendente. Il termine “focolare nazionale”, impiegato al posto di un più esplicito “Stato” o “Nazione”, era tuttavia ambiguo e la dichiarazione specificava anche che non dovevano essere danneggiati “i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina”. L’interpretazione della Dichiarazione Balfour sarà pertanto, fin dall’inizio, causa di attriti tra la popolazione islamica preesistente (che temeva la costituzione di uno Stato ebraico) e i sionisti, che la interpretavano invece come un appoggio, da parte del governo britannico, al loro progetto. Gli stessi britannici, alcuni anni dopo, con il libro bianco del 1922, rassicurarono la popolazione islamica sul fatto che la “Jewish National Home” in Palestina promessa nel 1917 non era da intendersi come una nazione ebraica, rimarcando però al contempo l’importanza della comunità ebraica presente e la necessità di una sua ulteriore espansione e del suo riconoscimento internazionale.
Con la fine della guerra, grande fu il dibattito tra le maggiori nazioni vincitrici per decidere il futuro di queste zone, anche alla luce delle direttive del presidente statunitense Woodrow Wilson che condannavano la costituzione di nuove colonie. Alla fine, con gli accordi di Sanremo del 1920, si optò per l’autorizzazione da parte della Società delle Nazioni di affidare alla Gran Bretagna e alla Francia due distinti Mandati, necessari in teoria per educare alla “democrazia liberale” le popolazioni del disciolto Impero Ottomano.
La Russia, con la Rivoluzione d’ottobre, era uscita anticipatamente dal conflitto con la pace di Brest-Litovsk voluta da Lenin, e pertanto non fu coinvolta in questa esperienza che difficilmente potrebbe non essere definita come una forma di neo-colonialismo internazionale. L’Italia, per la tradizionale debolezza della sua politica estera, fu anch’essa tenuta fuori dalle decisioni di riassetto internazionale.
La Società delle Nazioni affidò dunque alla Gran Bretagna un mandato per la regione della Palestina, che fino a quel momento e per tutti i secoli precedenti aveva coinciso con il territorio degli odierni Stati di Israele e Giordania.
Per permettere l’adempimento degli impegni presi, la Società delle Nazioni ritenne necessario istituire un’agenzia che coordinasse l’immigrazione ebraica e collaborasse con le autorità britanniche per istituire norme atte a facilitare la creazione di questo focolare nazionale, come per esempio la possibilità per gli immigrati ebrei di ottenere facilmente la cittadinanza palestinese; l’organizzazione sionista venne ritenuta la più adatta per questo compito. Oltre a questo il Mandatario dovette predisporre il territorio allo sviluppo di un futuro governo autonomo. Così, nel 1922, l’Inghilterra, seguendo quanto già deciso negli accordi di Sykes-Picot, concesse tutti i territori a est del fiume Giordano (quasi il 73% dell’intera area del Mandato) all’emiro ʿAbd Allāh. Questo territorio divenne la Transgiordania, con una maggioranza di popolazione araba, in gran parte musulmana (nel 1920 circa il 90% della popolazione, stimata in un totale di circa 4.000.000 di abitanti), mentre l’area a ovest del Giordano venne gestita direttamente dalla Gran Bretagna.
Se la reazione delle popolazioni arabe (musulmane e cristiane) a tali progetti fu vivace e del tutto improntata all’ostilità, diverso fu invece l’atteggiamento del movimento sionista che, forte delle precedenti promesse fattegli, considerò il Mandato britannico sulla Palestina il primo passo per la futura realizzazione dell’agognato Stato ebraico.
Le proteste della popolazione araba furono però ancora più esacerbate a causa della violazione, da parte dei britannici, degli accordi (anch’essi segreti) sottoscritti con lo Sharīf di Mecca, al-Husayn b. ‘Alī, col ministro plenipotenziario di Sua Maestà Sir Henry MacMahon, Alto Commissario in Egitto, il quale aveva promesso, dopo la caduta dell’Impero ottomano, il riconoscimento agli Arabi dei diritti all’auto-determinazione e all’indipendenza in cambio della loro partecipazione agli sforzi bellici anti-ottomani, e la creazione di uno “Stato arabo” dagli imprecisati confini.
In base a tali accordi alcuni contingenti arabi, guidati dal figlio dello Sharīf, Faysal (futuro sovrano d’Iraq), parteciparono alla cosiddetta “Rivolta Araba”, forti dell’aiuto della Gran Bretagna che distaccò come suo ufficiale di collegamento (ma di fatto suo plenipotenziario) il colonnello Thomas Edward Lawrence (più noto come Lawrence d’Arabia). Ben si conosce la disillusione dello stesso ufficiale che, dopo molto aver promesso e molto ottenuto, fu costretto ad assistere del tutto impotente alla violazione degli impegni presi da Londra, da lui stesso in buona fede calorosamente avallati.
Anche se in realtà la Gran Bretagna era stata in grado di controllare militarmente la zona palestinese fin dal 1917, fu solo nel 1923 che il Mandato entrò effettivamente in vigore e fin dall’inizio cominciarono a sorgere nel Paese vari movimenti di resistenza islamica (muqàwwama) che miravano all’allontanamento di tutti quelli che venivano considerati stranieri.
Sotto il Mandato britannico l’immigrazione ebraica nella zona subì un’accelerazione mentre l’Agenzia Ebraica – che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da sostenitori esteri – operò alacremente per l’acquisto di terreni. Il risultato fu quello di portare la popolazione ebraica in Palestina dalle 83.000 unità del 1915, alle 84.000 unità del 1922 (a fronte dei 590.000 musulmani e 71.000 cristiani), alle 175.138 del 1931 (contro i 761.922 musulmani e i quasi 90.000 cristiani), alle 360.000 unità della fine degli anni trenta, quando non era ancora completamente nota alla pubblica opinione internazionale, la dimensione delle misure repressive adottate contro gli ebrei della Polonia e, in modo assai più marcato, della Germania nazista.
Durante gli anni venti e trenta si registrarono vari episodi di violenza come ad esempio gli scontri dell’Agosto del 1929 che videro oltre cento morti per parte. Quelli palestinesi quasi tutti per mano della polizia britannica. Nel 1936 si arrivò addirittura ad uno sciopero generale dei palestinesi, che protestavano per le continue azioni terroristiche da parte di gruppi sionisti armati, come l’Irgun Zvai Leumi, che agivano con il dichiarato scopo di “liberare la Palestina e la Transgiordania” con la forza.
1937-1947: il decennio alla base dei problemi odierni
Iniziano nel 1937 dieci anni cruciali, in cui vengono alla luce e si cristallizzano tutti gli elementi che saranno poi alla base dei maggiori problemi odierni.
Nel Luglio del 1937 una commissione britannica, capeggiata dal Segretario di Stato delle Indie, Lord Peel, raccomandò la spartizione delle terre in due stati, uno israeliano (un terzo delle terre circa, comprensivo della Galilea e della pianura costiera) ed uno arabo.
I palestinesi respinsero questa idea, e chiesero invece un arresto dell’immigrazione, con l’implementazione di adeguate misure di protezione per le minoranze all’interno di un unico stato comune. Il rifiuto inglese portò ad un ritorno della violenza, finché le proteste furono definitivamente schiacciate con la forza dall’esercito britannico. Con l’avvicinarsi della guerra, aumentò sensibilmente il ritmo di immigrazione degli ebrei, che provenivano soprattutto dall’Europa Centrale, e che iniziò a mettere a rischio l’intero equilibrio del ciclo produzione/sostentamento nella regione.
Nel Maggio del 1939 il governo Britannico pubblicò il Documento Parlamentare 6019, noto come “White Paper“, con il quale intendeva porre un limite all’affluenza ormai indiscriminata verso Israele. Nonostante questo, intere navi cariche di immigranti viaggiavano di notte, sottocosta, cercando di superare il blocco navale inglese, per poi accostare alla prima spiaggia libera e scaricare letteralmente fuori bordo centinaia di persone alla volta, quelli che venivano arrestati finivano in campi di internamento costruiti appositamente dagli stessi inglesi.
Durante la guerra, i vari gruppi armati sionisti si unificarono e riorganizzarono sotto la guida dell’Irgun, con l’intento di rivolgere contro gli stessi inglesi la loro lotta di “liberazione del territorio”. Alla loro guida nel frattempo era stato Menachem Begin.
Fu sotto la guida di Begin che nel Gennaio 1944 i sionisti dichiararono ufficialmente “rivolta” al governatorato inglese.
Questo portò ad una prima, storica spaccatura all’interno della leadership ebraica, che vide da una parte i membri del Yishuv, l’Agenzia Ebraica che rappresentava ufficialmente gli interessi di quel popolo nel mondo, che sosteneva una via legale all’acquisizione del territorio, e dall’altra appunto Irgun, che usando invece tattiche molto simili a quelle dei terroristi odierni, diede inizio ad una serie di attentati contro i centri nevralgici dell’amministrazione britannica.
L’attentato più noto fu certamente quello del King David Hotel di Gerusalemme, che fu portato a termine da sei membri dell’Irgun travestiti da arabi. Nell’attentato morirono quasi cento persone, e le lunghe diatribe riguardo al fatto che gli attentatori avessero avvisato o meno la direzione dell’Hotel, mezz’ora prima dell’esplosione, rimasero per sempre insolute.
Alla fine della guerra la situazione era ormai giunta al limite, con arabi contro ebrei, inglesi contro arabi, ebrei contro inglesi, ma anche ebrei contro ebrei, con gli stessi leader Yashuv che temettero per un momento una vera e propria guerra civile. L’Inghilterra si vide così costretta a rimettere la delicata questione nelle mani delle Nazioni Unite, che erano da poco nate dalle ceneri della stessa Società delle Nazioni che le aveva assegnato il mandato venticinque anni prima.
Nel frattempo gli scontri fra palestinesi ed ebrei si facevano sempre più gravi, col confluire in Palestina di nuove ondate di ebrei sopravvissuti alla Shoah, oltre a quelli che avevano risposto all’appello del sionismo da ogni altra parte del mondo.
Un Comitato Speciale delle Nazioni Unite tornò a proporre una spartizione della terra, che prevedeva la creazione contemporanea dello Stato di Israele. Il piano, che assegnava il 57% delle terre agli ebrei ed il 43% agli arabi, con Gerusalemme sotto controllo internazionale, fu accettato dai primi, ma respinto dai secondi. Va notato che i palestinesi non facevano direttamente parte delle Nazioni Unite, e dovevano quindi farsi rappresentare dai delegati dei confinanti paesi arabi.
Il 29 Novembre 1947 il piano fu sottoposto al voto dell’Assemblea Generale, che emise la storica risoluzione 181, con 33 paesi a favore, 13 contrari, e 10 astenuti.
L’Inghilterra annunciò l’intenzione di restituire il mandato il 15 Maggio del 1948. Ma i fermenti provocati dalla decisione ONU esplosero molto prima di quella data, precipitando la regione in uno stato di caos, e mettendo gli inglesi in serie difficoltà: da una parte, nel tentativo di domare la rivolta, il numero dei morti fra i loro soldati continuava a salire, dall’altra si facevano sempre più forti le pressioni da parte degli Stati Uniti per permettere l’immigrazione ad un numero ancora maggiore di ebrei. Ora in chiaro contrasto con l’Inghilterra, sembrava essere passato decisamente agli USA il ruolo di sostenitori della causa sionista.
Le prime operazioni sistematiche di “pulizia” – così definite da loro stessi – furono intraprese dai sionisti contro i palestinesi nel Dicembre del 1947.
Clicca qui per leggere la seconda parte: dalla nascita dello stato di Israele ai giorni nostri
Fonti e foto: Wikipedia.org, BBC, luogocomune.net, news e articoli vari.
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