“Noi non siamo una casta, noi siamo la casa del capitalismo reale: quello produttivo e dell’innovazione”. Sembra, più che una parte del discorso di 28 pagine tenuto all’assemblea nazionale di Confindustria, uno scatto autocelebrativo quello pronunciato giovedì scorso da Giorgio Squinzi. Da un lato un’ infusione di ottimismo, dall’altro il tentativo di accreditare alla confederazione di Viale dell’Astronomia un ruolo chiave, se non di guida almeno di co-conduttore assieme al “governissimo” guidato da Enrico Letta, per far in modo che, tra le pressioni varie delle categorie, quelle degli industriali non risultino più fievoli.
Ma quest’affermazione, apparentemente di principio, tradisce anche un carattere che tipizza la borghesia produttiva italiana. Si tratta, in realtà, di un “gene” presente nelle vene del mondo dell’impresa da tempi non sospetti (ne avevano abbondantemente parlato Gramsci ed Amendola): è il gene dell’ambiguità. Nel merito, definirsi casa del capitalismo produttivo e innovativo è quantomeno un’esagerazione, per non definirla un’illazione. Di produttivo abbiamo infatti ben poco, se in 20 anni si è riusciti a perdere, in termini di produttività industriale intorno al 40%. Le ragioni di questo crollo sono presto dette: il susseguirsi di privatizzazioni selvagge, che in questo Paese hanno disarticolato interi apparati economici (non solo meramente produttivi), dall’energia all’industria siderurgica, passando per il sistema del credito e le telecomunicazioni, contrastano palesemente con questa rappresentazione dei fatti. In effetti nessuno, in casa Squinzi, potrebbe replicare a questa versione dei fatti: sono ben chiare nei ricordi di ciascuno le immagini degli applausi da parte di una platea di 4.800 industriali all’indirizzo di Silvio Berlusconi nel 2001 , allora incoronato candidato premier dal mondo dalla upper class italiana, con un programma improntato molto su riduzione del prelievo fiscale e deregulation, in favore soprattutto delle piccole e medie imprese (su quest’ultimo aspetto, sarà necessario, in conclusione, dare qualche cenno in più). Dello stesso tono fu l’adunata a Parma del 2010 che rinnovò fiducia al leader del Pdl, di li a un anno, poi, abbandonato e rinnegato.
Inoltre, il fatto che, solo nei forzieri Svizzeri, vi sia una concentrazione di capitali italiani, trasferiti clandestinamente, pari a 150 miliardi di euro, la dice lunga sul cosiddetto “capitalismo produttivo” di casa nostra. Il recupero di almeno una frazione di questo “occulto” sarebbe già un passo significativo in direzione della tanto conclamata crescita e degli investimenti. Ma questo sarebbe compito di una classe dirigenti nazionale e consapevole del proprio ruolo, nemmeno le “intese” politiche, per quanto larghe e responsabili, potrebbero in realtà fare di più su questo versante.
Quanto al carattere “innovativo” del nostro capitalismo, ci sarebbe più di un appunto di precisazione a riguardo: se è vero che c’è una presenza rilevante nell’economia italiana di piccole e medie imprese, molte delle quali frutto di esperienze giovanili (start up e affini), nell’ambito delle imprese più grandi e attempate questo elemento d’innovazione produttiva non è facilmente riscontrabile. Un esempio per tutti è sicuramente la Fiat di Marchionne: fino a quando infatti la stessa casa automobilistica è stata parte di Confindustria (2011), non ci sono stati indici positivi quanto agli investimenti in tecnologia, soprattutto raffrontandoli con i principali competitors europei (Volkswagen, Mercedes, Renault, Peugeot), i quali, in particolare quelli francesi, hanno nel tempo puntato sull’innovazione energetica (auto a idrogeno) mentre i tedeschi hanno rafforzato gli investimenti in ricerca tecnologica (si può ricordare agevolmente l’assunzione di più di 100 ingegneri in Volkswagen nel 2011) in combinato disposto con la riduzione dei prezzi sui prodotti stessi.
Per la Fiat italiana i risultati ottenuti sono stati: una presenza insignificante nel mercato europeo (ancora oggi le flessioni delle vendite nel vecchio continente si fanno sentire, e come), con l’unica tutela rappresentata dalla posizione di monopolio produttivo entro i confini della penisola, ed una marginale presenza in uno dei mercati più fiorenti, quello cinese (fino all’anno scorso sostanzialmente limitata alla vendita di autocarri pesanti Iveco).
Non è così agevole, quindi, per Confindustria e l’impresa italiana, ritagliarsi un ruolo credibile in questo contesto complesso e molto liquido. Ma le contraddizioni continuano ad attraversare la maggiore associazione datoriale, se si pensa ad alcune proposte, sicuramente di peso, sia per la prospettiva che per il sostegno economico richiesto, che oggi la stessa avanza. Due di queste meritano sicuramente qualche parola di commento: una Banca pubblica di sostegno alla richiesta di credito ed una strategia volta all’accorpamento di agglomerati produttivi oggi troppo atomizzati (le Pmi). Questa svolta, in termini di contenuto, nella strategia su cui impostare una riorganizzazione dell’intero sistema produttivo lascia sbalorditi. Si tratta, in verità, dell’esatto rovescio della medaglia rispetto alle posizioni espresse da Confindustria per più di un ventennio.
Il sistema pubblico di credito smentisce nei fatti il mito neoliberale dell’assoluta indipendenza del mercato. Si tratta di una presa di coscienza evidentemente cresciuta valutando l’operato delle altre economie europee, basti pensare alla nuova Banque pubblique d’investiment di Hollande ed al sistema regionalizzato di banche pubbliche tedesche. Per ironia della sorte o, più probabilmente, per scarsa lungimiranza, lo stesso processo di smantellamento della presenza dello Stato nell’economia reale, avvenuto negli anni ’90 ha colpito anche la mano pubblica presente nel mondo del credito nazionale (l’esempio più lampante è rappresentato dall’ormai notissimo Monte dei Paschi di Siena, fino ai primi anni Novanta banca pubblica).
Quanto all’accorpamento nel mondo delle piccole e medie imprese, anche in questo caso si assiste ad una brusca inversione di marcia: il culto della concorrenza sfrenata, dell’egoismo del “self made man”, che gli anni d’oro del berlusconismo rampante avevano rappresentato, è bruscamente messo in discussione. Anzi si sposerebbe in tal caso una concezione puramente marxista che annovera tra i fattori di controtendenza nella crisi dell’economia proprio la concentrazione produttiva.
La classe dirigente italiana sta sicuramente cambiando itinerario rispetto alla strada battuta finora, una strada che ha portato dritto al burrone della crisi. Ma sarà sufficiente un muoversi alla cieca senza fare i conti con più di vent’anni di neoliberismo sfrenato?
Francesco Valerio Della Croce