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Condannati alla divisione: il fallimento del panarabismo

Agli occhi di un osservatore occasionale delle vicende geopolitiche che coinvolgono le sponde del Mediterraneo, si presenterà subito un evidente paradosso. Ad ovest, in Europa, ha luogo un processo di integrazione coattiva e forzata di nazioni dalla cultura, dalla storia e dalle condizioni economiche profondamente differenti, mentre a sud e, soprattutto, ad est, al contrario, instabilità e conflitti divampano a dispetto di almeno due grandi elementi di omogeneità, cioè l’etnia araba e la religione islamica.

Nel corso dei decenni, svariati soggetti hanno teorizzato l’unione del Medio Oriente e di parte dell’Africa settentrionale in un’unica entità politica e, talvolta, si sono adoperati per rendere concreta ed effettiva tale idea, basandosi ora sul primo criterio, ora sul secondo.

Rinviando l’analisi di quest’ultimo alla prossima settimana, secondo buona parte degli studiosi, le radici del panarabismo sono da ricercare nell’opera dello scrittore e giornalista libanese Jurij Zaydan, vissuto a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,  ma è stato a partire dal primo dopoguerra che il concetto, ampio e complesso, dell’unificazione dei popoli arabofoni sotto un’unica bandiera ha visto il suo maggiore sviluppo filosofico e politico, venendo dapprima interpretato come irredentismo post-ottomano e, in seguito, post-coloniale. Poi, alla fine del secondo conflitto mondiale, nel 1945, venne istituita al Cairo la Lega Araba e, due anni più tardi, gli intellettuali siriani Michel Aflaq e Salah Al-Din Al-Bitar fondarono il Partito Baath, che si proponeva come un’espressione laica e secolarista del nazionalismo arabo, nonché come via locale al socialismo.

Il principale propugnatore del panarabismo, tuttavia, fu Gamal Abd el-Nasser, il quale, nel 1956, dopo essere stato eletto alla presidenza dell’Egitto, che aveva da poco adottato una costituzione repubblicana di matrice socialista, si rese immediatamente protagonista di politiche rivoluzionarie per la regione, su tutte la nazionalizzazione, osteggiata fortemente da Regno Unito e Francia, del Canale di Suez. Egli intendeva il panarabismo come declinazione mediorientale della politica del non allineamento e sperava di realizzare una forma di coesione regionale per far assurgere l’Egitto a potenza egemone dell’area, ma il suo progetto fallì, essenzialmente per la radicale impossibilità di trovare una vera unità d’intenti con i Paesi vicini e, in particolare, con l’islamista Arabia Saudita. Pertanto, anche l’audace tentativo di fondere l’Egitto con la Siria, dando vita alla cosiddetta Repubblica Araba Unita, non ebbe successo e, dopo soli tre anni dalla sua fondazione, nel 1961, quest’ultima cessò de facto di esistere a causa di divergenze insanabili sulla politica estera da tenere.

Neppure un forte denominatore comune come la causa palestinese, sfruttata con fini propagandistici per almeno trent’anni, è stato in grado di unificare i Paesi arabi, tant’è che, secondo la maggior parte degli analisti, il declino dell’ideologia panarabista avrebbe avuto inizio proprio nel 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, quando, all’indomani della disfatta dell’Egitto e dei suoi alleati, su Nasser piovvero critiche da tutto il mondo arabo, soprattutto dal Maghreb e dalla Siria, Stato quest’ultimo in cui, paradossalmente, il potere era detenuto da un esponente del Baath, Hafez Al-Assad. In molti, poi, imputavano al presidente un sostanziale “tradimento” della sua stessa ideologia, che presupponeva un distacco da entrambi i blocchi della Guerra Fredda e che, invece, aveva contribuito a far entrare larga parte delle nazioni arabe nell’orbita sovietica e ad inimicarsi, per converso, gli Stati Uniti. Con la morte di Nasser, avvenuta nel 1970, e con la deriva sempre più autoritaria del partito Baath, tanto in Siria quanto in Iraq, dove, nel 1979, prenderà il potere Saddam Hussein, l’ideale panarabista ha cessato di esistere, quantomeno a livello di propositi concreti. Il “colpo di grazia” simbolico è stato rappresentato dal riconoscimento di Israele da parte del successore di Nasser, Sadat.

In verità, una simile idea si presentava viziata fin dal principio. Innanzitutto, nessuno, ad eccezione di teorizzatori originari come Aflaq, ha mai inteso il panarabismo come una autentica volontà di unificazione del mondo arabo, bensì come uno stendardo da sventolare per il proprio tornaconto personale. Nasser in primis, infatti, lo intendeva come uno strumento per creare un’unione di Stati arabi a trazione egiziana, mentre Assad padre ed Hussein, saliti al potere anche sulla sua base, non si sono mai preoccupati di intraprendere politiche unioniste o federative, anzi, hanno fin da subito fatto tutto il possibile per consolidare la loro presa sui rispettivi Paesi, entrando peraltro in conflitto tra loro a dispetto dell’appartenenza, almeno sulla carta, allo stesso partito. Esigenze particolari ed egoistiche, dunque, legate anche e soprattutto ad elementi economici, hanno sempre prevalso su quello che veniva descritto come il destino finale della nazione araba.

Inoltre, è impossibile sottovalutare anche un secondo aspetto, consistente nel fatto che l’etnia araba, pur essendo predominante, non è certo l’unica a risiedere nelle terre che si estendono dal Marocco all’Iran. Basti pensare alla consistente minoranza berbera del Nordafrica, alla tutt’ora insoluta questione curda o alla presenza nella regione della Turchia e dell’Iran, Stati che rappresentano da millenni l’espressione di due civiltà ben diverse da quella araba, rispettivamente quella turca e quella persiana.

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