Condannate all’infelicità? Le donne di Oriana Fallaci.
“Ti senti più felice all’idea di poter fare ciò che fanno gli uomini e divenire magari presidente della Repubblica? Dio, quanto vorrei essere nata in uno di quei paesi dove le donne non contano nulla. Tanto il nostro è un sesso inutile.”
Quest’estate una ragazza di vent’anni mi ha consigliato di leggere “Il sesso inutile”, il primo libro di Oriana Fallaci, pubblicato da Rizzoli nel 1961. Sinceramente non avevo voglia di leggermi un altro libro sul femminismo perché l’argomento sta cominciando a nausearmi. Vero è che la Fallaci non è mai una scrittrice banale, non si nutre di cliché e, grazie a Dio, non era impegnata in una battaglia per la body positive, ma semplicemente nell’inseguire il suo sogno di diventare una giornalista inviata.
Era il 1960 quando il direttore de “L’Europeo” le chiese di fare un giro per il mondo per scrivere un reportage sulle donne. La Fallaci rifiutò: “Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte”. Poi una confessione disperata di una sua cara amica a proposito dell’inutilità del gentil sesso le fece cambiare idea. Volò dal Pakistan all’India, dall’Indonesia alla Cina, dal Giappone all’Hawaii fino agli Stati Uniti con una sola domanda in testa: esisteva un luogo nel mondo, anche nell’angolo più sperduto, dove le donne potevano dirsi felici?
Appena le lettrici si immergono nelle pagine di questo reportage, si ritrovano catapultate in una miriade di universi possibili, un caleidoscopio di donne che sarebbero potute essere e non sono state.
Una donna sottomessa, senza un corpo e pensiero? O una donna sacra che non ha mai messo piede sulla terraferma? In Pakistan, il paese dove le bambine si sposano con uomini di cui non conoscono il volto, dove le donne sono infagottate dalla testa ai piedi, la Fallaci scrive di aver l’impressione “di essere l’unica donna sopravvissuta a un diluvio universale dove siano affogate tutte le donne del mondo”.
Dopo le grandi contraddizioni di uno stato come l’India, leggiamo delle matriarche della Malesia che vivono nella giungla in case di legno nero con tetti di paglia e che ci offrono il riflesso invertito della nostra società: sono le mogli a dare il cognome al marito e ai figli, sono le donne a dover mantenere gli uomini, sono loro a decidere su qualsiasi cosa perché sono loro a detenere il potere economico- sono infatti le uniche a possedere la terra. Le anziane cinesi portano ancora i segni della fasciatura dei piedi, le giovani però hanno i reggiseni di gomma, ma nessuna risponde alla domande della giornalista: “Vi piace vivere qui?”
Dopo parecchie settimane, dopo decine di voli, di taxi presi, di persone incontrate, la nostra inviata si sentì nuovamente al punto di partenza, come se non si fosse affatto mossa, come se tutta questa appariscente diversità tra donne cinesi, indiane, americane o pakistane, fosse in realtà solo apparente. Oriana Fallaci non ha potuto viaggiare nel tempo, ma penso che se avesse potuto, sarebbe corsa fino a noi, ragazze del 2020, per chiederci sfrontatamente: siete felici?
Io credo che la gran parte di noi rimarrebbe molto perplessa di fronte a una simile domanda: cosa c’entra la felicità con il femminismo? Noi lottiamo per avere gli stessi diritti degli uomini, per la parità salariale, per smettere di essere considerate quelle che si occupano della casa, e per mille altre cose; la parola felicità non compare neanche per sbaglio in nessun articolo o pamphlet femminista. Ma allora qual è la prospettiva della lotta femminista? Dove arriva il nostro sguardo? Vogliamo soltanto avere le stesse condizioni personali e lavorative degli uomini? Forse ha ragione Antonio Moresco quando scrive: “Perché anche il modello ascensionale femminile è altrettanto cieco e totalitario di quello maschile, sono posti tutti e due sulla stessa linea orizzontale senza ritorno. Perché i modelli emancipativi femminili sono ricalcati su quelli maschili, in una sorta di pensiero unico”.
Un recente studio del National Opinion Research Center sembra confermare questa deriva, denunciata anche dalla giornalista Maureen Dowd del New York Times: “più abbiamo scalato montagne e più la nostra depressione è aumentata”. Il vero interrogativo che prepotentemente ci pone questo vecchio ma attualissimo libro è dunque se mai, in qualche tempo e in qualche luogo, noi donne saremo felici o se invece siamo condannate per sempre, come Eva, ad essere escluse dall’Eden.