21 Novembre 2024
Chi è il giovane adulto? Perché non è più adolescente, ma ancora non può essere definito adulto maturo? Quali sono i suoi obiettivi, le sue risorse, i suoi rischi, all’interno del nostro mondo così complesso? Quali rapporti ha con la famiglia, il lavoro, la vita, l’amore e la politica? Quali pericoli e quali soluzioni?

Un tempo non troppo lontano, l’adolescenza non esisteva come singola fase del ciclo di vita: si passava direttamente dall’infanzia all’età adulta. Dopo una primissima (e mai certa) scolarizzazione, subito i ragazzi venivano chiamati al lavoro e/o alla vita coniugale. Lo psicologo sociale Kenneth Keniston nota che, come la società industriale ha introdotto l’adolescenza tra l’infanzia e l’età adulta, così la società post-industriale ha fatto nascere una nuova età: la fase giovanile, la così detta emerging adulthood, che comprende il giovane adulto che va dai 19 ai 29 anni.

Perché è nata l’esigenza di nominare questa nuova età? In cosa il giovane adulto è diverso sia dall’adolescente che dall’adulto maturo? I giovani maggiorenni hanno già affrontato le trasformazioni biologiche, psicologiche, sociali e relazionali tipiche dell’adolescenza, non sono più ragazzini alle prese con la scoperta della propria identità, del proprio corpo e del mondo relazionale, eppure ancora non sono adulti. Di solito studiano o lavorano, ma raramente hanno raggiungo la vera indipendenza economica e abitativa. In Italia, si sa, siamo ancora più restii ad allontanarci dal contesto familiare, e non a caso si parla del “famiglia lunga” per indicare il fenomeno dei giovani adulti che coltivano la loro vita all’interno della famiglia di origine. Le cause di questa “sindrome del ritardo“, specialità tipicamente italiana, sono probabilmente da rintracciare nel connubio tra la nostra cultura tradizionalmente familiarista, e una serie di fattori più recenti e strutturali, come l’allungamento dei tempi di istruzione e formazione e la generale disoccupazione giovanile. E’ stato notato che, mentre in altri paesi questi ritardi pur esistendo non sono “cumulativi“, in Italia spesso il ritardo in una fase rallenta quella successiva. Abbiamo così un numero di studenti-lavoratori italiani minore rispetto all’esterno, e un più basso tasso di giovani adulti che raggiunge l’indipendenza abitativa prima di trovare un lavoro stabile.


Vicino al problema del ritardo nella transizione alla genitorialità, si pone quello della crisi demografica: meno figli e sempre più tardi. Se andiamo a ricercarne le cause, certamente troviamo la recessione economica e la crisi del Sistema welfare familiare, eppure alcuni hanno notato che le cause strutturali non sono sufficienti a spiegare da sole questo fenomeno. Un’indagine del 2007 fatta dall’Istituto IARD dimostra infatti che solo il 27,4% dei giovani lavoratori crede che il suo stipendio sia insufficiente per conquistare l’autonomia economica e abitativa. Una ricerca dello stesso anno condotta dalla Commissione europea sui giovani dai 15 ai 30 anni dimostra che la percentuale di italiani che condivide l’espressione “Voglio le comodità senza le responsabilità” è maggiore di quella dei coetanei stranieri, ed in generale è in crescita. Infatti – nota lo psicologo americano Barry Schwartz – l’ampia libertà associata alle scarse responsabilità che ci viene posta davanti può rappresentare una grande conquista, ma anche un grande pericolo di stallo psicologico, che rischia di generare un senso di incertezza e una paralisi emotiva.

Ad un’analisi simile giunge il già citato Keniston che, riprendendo la teoria dello sviluppo formulata da Erikson (secondo cui lo sviluppo cognitivo e psicologico di ognuno di noi procede secondo una serie di conflitti tra spinte opposte), ipotizza che il conflitto interiore del giovane adulto sia quello tra individuazione e alienazione: se nel primo polo si concentra la conquista di un ruolo sociale stabile (l’impegno nel lavoro, la relazione affettiva stabile, la ricerca del benessere per le nuove generazioni, l’impegno civile nella comunità), nel polo dell’alienazione abbiamo la marginalità, la fragilità emotiva, l’abbandono degli ideali e dei ruoli, l’instabilità dell’identità. Il pericolo dell’alienazione identitaria a cui oggi sono sottoposti molti giovani sta proprio nell’incapacità di trovarsi un posto nel mondo, nell’inconsistenza del ruolo sociale (Hurrelmann e Ouenzel).

L’espressione “emerging adulthood” è stata coniata dallo psicologo Jeffrey Arnett. Quest’ultimo individua cinque pilastri (non universali, ma comunque molto frequenti) che caratterizzano questa nuova età: le esplorazioni identitarie che continuano anche dopo l’adolescenza; l’instabilità dovuta alla ricerca di un proprio posto nel mondo; la focalizzazione sul Sé, sulle proprie risorse e sui propri obiettivi; la sensazione di precarietà (il “sentirsi in bilico“); e la fase delle possibilità, intesa come periodo dinamico di esplorazioni e opportunità.

Questo senso di instabilità e assenza di ruolo si riflette anche nella sfera professionale. Il lavoro del giovane adulto è sempre più liquido e fluido, privo troppo spesso di sicurezza di reddito e d’identità professionali. E’ quindi in crescita il numero di NEET (“not [engaged] in education, employment or training“), termine che indica i giovani adulti under 30 che non studiano e non lavorano. Secondo i dati Eurostat il tasso di NEET italiani tra i 18 e i 24 anni nel 2012 raggiunse il picco del 27%, e nel 2016 superò ogni altro paese europeo. Un’altra indagine condotta dall’Istituto Toniolo nel 2014, mostra come ai NEET sembrano associate scarsa fiducia verso le istituzioni, maggiore infelicità e una sfiducia particolarmente preoccupante verso il futuro, ma anche uno scarso impegno civico, una minore attenzione ai problemi politici e un minor tempo impiegato nel volontariato.

Sulla precarietà nel mondo del lavoro tanto si è parlato, ma nel mondo del giovane adulto questo senso di bilico e instabilità sembra incidere in particolar modo, provocando un senso di incertezza anche in altri aspetti della vita. Si parla a questo proposito di crisi della generatività, che incide non solo sulla questione del lavoro e della natalità, ma anche sulla generatività sociale, sulla produzione di capitale umano, sul volontariato, sulla vita civile e comunitaria. Tutti questo è messo in crisi in favore di una crescente cultura individualista che aliena il giovane adulto dalla comunità umana.

Una conquista del giovane adulto rispetto all’adolescente è la capacità di costruire relazioni sentimentali fondate sulla cura, sul rispetto dell’altro e sullo scambio profondo. Secondo Erikson la capacità di amare fa parte di un importante compito esistenziale, che si struttura dal conflitto tra intimità – caratterizzata dalla vicinanza intima all’altro, senza il pericolo di una fusione identitaria – e isolamento, inteso come incapacità di aprirsi alla reciprocità. Per Charmet il superamento dell’età adolescenziale sta proprio nel superamento dell’approccio narcisistico ed oggettivante nella vita di coppia, nella conquista della stabilità, che comunque non è ancora così salda come lo è quella dell’adulto formato.
Infatti, secondo Regalia e Iafrate, la stabilità della coppia del giovane adulto (ed in generale la sua sfera relazionale) è ancora minacciata da tre fattori:


  1. Tendenza alla sperimentazione e all’autonomia individualistica. Come Ammaniti nota, “l‘immagine di un Io inscritto in rigidi confini può diventare una trappola seducente e allo stesso tempo fuorviante, perché ci fa dimenticare quanto gli altri siano parte integrante del proprio Io“;
  2. Idea che la relazione sia in primis passione e coinvolgimento emotivo e, solo in secondo luogo, attenzione all’altro. Emerge così un approccio (proprio anche e soprattutto dell’adolescente) edonistico ed egoista alla relazione. Mentre nell’età adolescenziale questo “individualismo amoroso” è utile e funzionale alla formazione dell’identità adulta, per il giovane adulto inizia a rappresentare un pericolo;
  3. Perdita di legami sociali comunitari. Su quest’ultimo fattore si pone un’intera trasformazione sociologica della nostra epoca: mentre in passato la coppia era supportata da un’impalcatura comunitaria di supporto (rete familiare, vicinato, intergenerazionalità, sostegno della comunità), oggi questo tessuto sociale sembra più precario, e quindi la coppia si trova da sola, come se fosse in lotta contro il resto del mondo, sempre più sradicata da ogni forma di sostegno esterno.

Questa generica crisi relazionale si unisce al declino del ruolo sociale e della stabilità, del lavoro, della generatività e della famiglia, e va a costituire il fenomeno della crisi della prosocialità. Per Caprara la prosocialità è la “Tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli altri“. Questo impegno prosociale da sempre costituisce uno dei cardini della formazione dell’individuo nel superamento del proprio interesse, e quindi nella cosiddetta auto-trascendenza (trascendenza di sé, andare oltre il proprio ego). Il giovane adulto di oggi è minacciato di perdere questa capacità di auto-trascendere, e sembra sempre più incline ad abbandonarsi a fenomeni di tossicodipendenza, disinteresse, devianza criminale e marginalizzazione. La crescita spaventosa dell’isolamento sembra legata all’alienazione tecnologica: sempre più giovani sono minacciati dal fenomeno giapponese dell’hikikomori: colui che si auto-esclude da ogni rapporto umano per alienarsi nella vita digitale. Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitale e dei social network, però, riesce a spiegare solo in parte questa marginalizzazione, anche perché la stessa comparsa di internet e del digitale può rappresentare anche un’occasione di potenzialità e crescita. Secondo autori come Benasayag e Schmit, autori del celebre saggio L’Epoca delle Passioni Tristi, la vera fonte di questo crescente individualismo alienante sta in una vera e propria cultura del pessimismo, attraverso la quale il futuro appare grigio e incerto, e il giovane adulto sembra non avere alcuna speranza, finendo per abbandonarsi all’incertezza e al disorientamento.

Tutto questo sembra riportare a uno scenario buio e pessimista. E’ però sufficiente gettare un occhio al passato per accorgersi come ogni epoca abbia avuto i suoi mostri, e come le generazione passate si siano trovate ad affrontare mostri peggiori del nostro. Le statistiche che documentano l’emergere di nuovi problemi si bilanciano con quelle che testimoniano la scomparsa di vecchie emergenze. Si pone quindi la necessità assolutamente prioritaria di (ri)costruire una vera e propria cultura dell’ottimismo, per riconquistare gli spazi che la marginalità, l’alienazione e la precarietà hanno sottratto ai giovani, e per ridare loro quell’identità perduta e quella stabilità che oggi troppo spesso costringe a ritardare l’età adulta.

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Francesco Rau

Livornese ma nato in Tanzania, classe '97. Capo-scout Agesci, cattolico, laureato in Scienze del Servizio Sociale, educatore. Appassionato di scienze sociali, recitazione e filosofia.

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