«Crederanno le generazioni a venire che sotto i loro piedi sono città e popolazioni, e che le campagne degli avi s’inabissarono? »
Oggi è il 1 Aprile. No, non è una data così nota, è vero. E proprio per questo ho deciso di approfittare di questo spazio per parlarvene, perché il 1 Aprile del 1748 è una data che pochi conoscono, una data passata sotto silenzio, ma quel giorno è stato fatto un grandissimo regalo all’Umanità: quel giorno sono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei, per volere di Carlo III di Borbone. Beh, certo, chiamarli “scavi” è eccessivo, diciamo che sono “sterri” il cui unico obiettivo era non certo raccogliere preziosissime informazioni sulla vita di una città durante il I secolo d.C., quanto trovare tesori. Un po’ viene da pensare a tutto quello che è stato perso e mai più potremo sapere, quella serie di informazioni che oggi riteniamo fondamentali e che solo uno scavo scientifico e stratigrafico può darci, ma anche così Pompei commuove. Davanti alle sue ville, alle sue strade, alle sue mura, non possiamo che impallidire, e commuoverci sfiorando con le dita gli stipiti delle porte. Certo, chissà quante altre città simili dovevano esserci in un impero così vasto, e le vicine Ercolano, Oplontis e Stabiae (attuali Torre Annunziata e Castellammare di Stabia) ma anche la portuale Ostia ci danno informazioni altrettanto preziose. Ma Pompei era un po’ la “città di villeggiatura” per senatori e patrizi romani almeno dalla sua fondazione come colonia, e quindi diventa per noi il simbolo del buon vivere romano.
La città non è di origine romana, ma fu fondata da popolazioni provenienti dalla valle del Sarno all’incrocio di tre strade importanti tra Cuma, il Nord e il Sud, diventando quindi passaggio obbligato e di conseguenza desiderabile conquista da parte delle popolazioni confinanti. Fu infatti conquistata da Cuma tra VI e V secolo a.C., poi passò sotto l’egemonia sannita. Alla fine delle guerre Sannitiche, divenne alleata di Roma conservando però una certa autonomia e restandole fedele anche durante le guerre Puniche. Al termine di queste, la coltivazione delle terre e il commercio di olio e vino portano abbondanti ricchezze, ed è infatti al II secolo che risalgono le principali e più ricche ville della città. Alla fine della guerra sociale contro Roma, fu presa da Silla, e nell’80 a.C. entrò definitivamente nell’orbita romana con la cessione delle terre ai veterani. In epoca imperiale la città subì altre modifiche e ristrutturazioni, l’ultima a partire dal 62 d.C. a seguito di un forte terremoto che provocò ingenti danni: molte delle strutture “attuali” infatti hanno segni di rifacimenti e ristrutturazioni in corso in quel 24/25 Agosto del 79 d.C., quando durante la notte il Vesuvio eruttò. Ora, in realtà la data del 24 Agosto è riportata in una lettera di Plinio il Giovane, ma i dati archeobotanici fanno propendere per una datazione autunnale, senza contare una moneta coniata per la 15° acclamazione di Tito, che avvenne l’8 Settembre del 79, quindi l’eruzione probabilmente risale al 24 Ottobre. Le sostanze eruttate sono pomici e rocce vulcaniche trasportate dal magma. I residui dell’eruzione, ceneri e lapilli che avvolgono i defunti, sono stati trovati in un’area ampia centinaia di chilometri quadrati. Secondo calcoli l’altezza della nube raggiunse di 17 chilometri.
Non voglio però annoiarvi ulteriormente con la storia di questa disgrazia (in termini di vite umane. Sfortunatamente, come è stato detto, l’archeologia di oggi si basa sulle disgrazie dei tempi passati). Ci sono tante cose di cui parlare, e comunque non daranno mai la misura di questo gioiello che abbiamo ereditato e che purtroppo non riusciamo a custodire come dovremmo. Colpa dello Stato, della Soprintendenza, della situazione locale non proprio trasparente, è difficile stabilirlo, e soprattutto non sta a me, che non ho i dati e le competenze giuste per poter affrontare un discorso di questo tipo: il mio scopo è semplicemente quello di descrivere per quanto posso la Bellezza che ci è stata regalata. Quindi, cos’altro potevo scegliere se non una delle ville più belle e importanti della città?
La casa del Fauno è una struttura speciale di cui parla perfino Dumas: le ville urbane e suburbane di Roma hanno una superficie media 700 mq, con l’importante eccezione della villa di Clodio sul Palatino che arriva all’estensione di 5000. Le ville dei ricchi italici nell’isola di Delo sono in media 400 mq. La Casa del Fauno coi suoi 3100 mq è una splendida eccezione nel panorama provinciale: nasce dall’accorpamento di due strutture esistenti adiacenti e infatti abbiamo due fauces (ingressi) adibite a diversi usi e due atrii, di cui solo uno è seguito dal complesso tablinum e alae (“ufficio” del padrone e ambienti di servizio, uno dei quali funge proprio da collegamento tra i 2 atrii). Nessuna delle due case comprendeva il grande peristilium (giardino circondato da colonne) che venne costruito successivamente alle spalle di quello centrale.
In questo modo la casa “definitiva” va a costituire da sola un intero isolato (l’insula). La sua costruzione risale al II secolo a.C. quando quindi la città è ancora osca, anche se sul marciapiede, davanti all’ingresso principale c’è una scritta latina, “have”, salve: l’uso del latino in ambiente osco è del tutto eccezionale e solo nel 180 i cumani furono autorizzati a usare il latino nelle iscrizioni pubbliche). Un’ipotesi potrebbe essere che il proprietario avrebbe ottenuto la cittadinanza romana a titolo personale e avesse deciso di ostentarlo.
Le fauces dietro la scritta latina immettono nell’atrio principale che dà sul tablinum, quindi nell’atrio di rappresentanza, dove il signore riceveva la clientela. Le porte del tablinum probabilmente stavano sempre aperte, in modo da far vedere la finestra sul fondo che inquadrava il primo peristilio sul cui fondo si trovava, inquadrata da colonne rosse, l’esedra col mosaico della Battaglia di Isso. La casa doveva quindi apparire al (fortunato) passante fin dal marciapiede come una selva di colonne in cui spiccavano quelle rosse dell’esedra che inquadravano, sullo sfondo di questa vera scenografia, il Vesuvio che le faceva ombra, immagine suggestiva che con il senno di poi sembra quasi un monito. Dalle altre fauces si accede a un atrio tetrastilo (con 4 colonne) e da qui agli ambienti di servizio, la cucina, i balnea con vasche riscaldate tramite sofisticati sistemi sotto il pavimento e all’interno delle pareti, ambienti per affumicare e seccare il cibo.
La casa è monumentale fin dall’esterno, dato che le fauces di rappresentanza erano affiancate da lesene corinzie e decorate con finte facciate di tempietto con 4 colonne e frontone, che stavano sopra mensole decorate con grifi e leoni alati, in modo da conferire un’aura di sacralità, mentre il pavimento era realizzato in opus sectile con marmo giallo, porfido e calcare, mentre sulla soglia sta un mosaico in tessere piccolissime con ghirlande con maschere teatrali (opus vermiculatum).
All’interno della casa ci sono poi altri ambienti decorati con mosaici che fanno di nuovo riferimento al teatro e quindi a Dioniso, ad esempio le cornici di maschere e il personaggio in sella a un animale simile al leone ma col mantello di tigre (il trionfo indiano di Dioniso probabilmente),ghirlande con fiori e frutti di ogni stagione a simboleggiare l’eternità, mosaici marini come quello del polpo che avvinghia l’astice e dei pesci, che è un tema diffuso in area italica (basti pensare al grande Mosaico Nilotico di Palestrina), e soprattutto il grande mosaico della Battaglia di Alessandro e Dario a Isso, mosaico che probabilmente riproduce un dipinto opera di Filosseno di Eretria stando a quanto racconta Plinio, in cui con un sapiente gioco di riflessi e prospettive, l’artista riesce a darci addirittura il ritratto di un guerriero di spalle.
Ma qual è il collegamento tra Dioniso, Alessandro e l’arte italica? L’ipotesi è che i mosaici a tema dionisiaco insieme alla statuetta in bronzo di fauno danzante nell’impluvium, facciano riferimento al nome della famiglia osca proprietaria della casa, i Satrii, un antenato dei quali probabilmente avrebbe partecipato alla campagna in Asia di Alessandro (ed ecco il collegamento con l’arte alessandrina e il tema delle battaglie di Alessandro). In effetti a File, in Egitto, c’è un’iscrizione che ricorda un nocerino, e sappiamo dalle fonti che i Campani militavano come mercenari nell’esercito di Alessandro il Molosso, zio di Alessandro, che condusse alcune campagne in Italia. Infine, Diodoro Siculo ricorda che nel 324-323 a.C. Alessandro ricevette a Babilonia un’ambasceria di popolazioni italiche tra cui un lucano. Infine, la pianta dell’esedra dalle colonne rosse riprenderebbe i luoghi di associazione militare tra osci e sanniti.
La casa assume col tempo un valore di “museo di famiglia”: non subirà più modifiche fino al momento della distruzione, un fatto del tutto eccezionale a Pompei dove gli ammodernamenti sono la regola. Per più di due secoli, la famiglia decide di lasciare la casa dei propri avi intatta. Così, il tempo e le ceneri ci hanno restituito una vera domus unica nel suo genere, splendida e bellissima, per com’era nel II secolo a.C.
Giulia Bertolini
Fonti: Roma e l’Italia Radices Imperii
L’arte romana al centro del potere, R. Bianchi Bandinelli
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