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Bruce Springsteen, il patriota critico


Born in the U.S.A, I was
born in the U.S.A, I was
born in the U.S.A
born in the U.S.A, now

Bruce Springsteen cantava così nel 1984 davanti a centinaia di fans.
Era arrivato il successo, era arrivata la gloria ed erano arrivati i soldi per quello che un tempo era un semplice e povero ragazzo americano del New Jersey.
Il Signor Nessuno era diventato “The Boss.
La ragione di tanto successo non può essere separata dalla sue esperienze personali, dalle sue storie e dalle sue vicende che gli hanno permesso di descrivere come pochi altri un vasto spaccato di vita americana, criticando ciò che andava criticato ma amando la propria nazione.

Bruce come detto non era di famiglia benestante, il padre spesso si trasferiva da una città all’altra per trovare lavoro lasciando la moglie a badare alla casa ed alla famiglia.

La madre, sempre molto premurosa verso i figli, decise di sviluppare le doti creative e musicali del piccolo Bruce e per i suoi 13 anni gli regalò la prima chitarra contraendo un prestito, fatto che turbò non poco il figlio e lo influenzò molto nella sua produzione successiva.

A 17 anni Springsteen fondò il suo primo gruppo ed iniziò a girare varie città tentando il successo ed inseguendo il “Sogno Americano”.
In questi anni Bruce assaporò diverse difficoltà ma non mollò mai la presa e, finalmente, riuscì ad affermarsi sul palcoscenico musicale americano con gli album “Born to Run” e “Darkness of the Edge of Town” a metà del 1970.

Potrete immaginare a questo punto che i singoli di Springsteen esaltino l’ ”American Dream”, siano fiduciosi verso la possibilità di diventare “Self Made Man”, siano insomma propositivi verso la società statunitense.
Beh, non è affatto così.

Nei singoli “Born to Run”, “Thunder Road”, “Badlands”, pezzi trainanti dei due album, possiamo al contrario cogliere una profonda disillusione nei confronti del “Sogno Americano”, tanto appariscente quanto vuoto nella sostanza (In the day we sweat it out in the streets of a runaway American dream/ Di giorno ci sfoghiamo sulle strade di uno effimero sogno americano ) , irraggiungibile per moltissimi cittadini costretti a vivere in “Badlands”, bassifondi, con l’unica via di uscita rappresentata dall’amore più e più volte esaltato dallo stesso Springsteen quasi in termini biblici(These two lanes will take us anywhere, We got one last chance to make it real to trade in these wings on some wheels, climb in back Heaven’s waiting on down the tracks/ Questa strada a due corsie ci porterà ovunque vogliamo, abbiamo un’ultima possibilità per avverare i nostri sogni, per scambiare con delle buone ruote le nostre ali, salta su, il Paradiso ci aspetta lungo il percorso).

Questa angoscia manifestata per un modello di vita che all’epoca si stava diffondendo  in tutto il mondo emerge in maniera ancora più evidente nel suo più grande album, “Born in the U.S.A.” uscito nel 1984 sotto la Presidenza Repubblicana di Ronald Reagan.

Se prima le canzoni sembravano solo intrise di temi di ribellione e di lotta, in “Born in the U.S.A.” Springsteen diventa davvero maturo, superando molti temi considerati caldi all’epoca come la Guerra in Vietnam.

La canzone trainante, omonima dell’album, descrive proprio con parole semplici e drammatiche il destino di un soldato spedito ad “Uccidere l’uomo Giallo” in Asia.
La sorte del giovane è quasi peggiore di quella che potrebbe capitare ad un morto.

Il ragazzo, tornato in patria, si vede rifiutare le proprie domande di lavoro senza apparente motivazione, gli stessi uomini che prima gli avevano dato un fucile e un biglietto di sola andata per Saigon si trovano imbarazzati nello spiegargli come sia diventata quasi un peso la sua ricollocazione sociale.

Il soldato diventato reduce non può che abbandonarsi ad un lavoro in raffineria, senza aver minimamente raggiunto il successo americano, vivendo come era nato, povero e senza nessun posto dove andare.
In questa visione così rabbiosa e pessimistica spunta però una flebile speranza, la sola che nelle canzoni di Springsteen riscalda gli animi ed i cuori.

L’amore.

Il reduce diviene così un “rocking-daddy in the U.S.A.”, un “papà che roccheggia negli Stati Uniti D’America”.

Trent’anni passano ma il grande cuore del “Boss” non viene consumato.
Dal 2001 Springsteen ritorna a picchiare duro nei suoi singoli contro quei problemi rimasti insoluti dagli anni 80, le bolle finanziarie, la crescita delle diseguaglianze sociali, le continue guerre distruggono il popolo americano inutilmente.
Wrecking Balls”, il suo ultimo album, può considerarsi a pieno titolo l’erede naturale di “Born in the U.S.A.”
” Wherever this flag’s flown,We take care of our own/
Ovunque sia volata questa bandiera
Noi ci prendiamo cura di ciò che è nostrosi contrappone quasi violentemente alla situazione socio-economica statunitense dove “The banker man grows fatter, the working man grows thin/ Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore diventa sempre più magro”.

Il suo sempre crescente impegno civile lo porta a schierarsi con forza con Obama alle ultime elezioni americane vedendo in lui il simbolo di tante speranze infuse nelle proprie canzoni durante gli anni e a gioire della sua successiva vittoria, confidando in un avvenire migliore per non lasciare nessuno indietro.

Come detto, criticare a volte vuol dire proprio amare qualcosa e cercare con tutto te stesso di cambiarla, forse in meglio, forse in peggio, però di cambiarla.

Springsteen a me piace vederlo così, un cantante che ama davvero il proprio paese e da decenni lotta con tutto se stesso per migliorarlo, “And hard times come, and hard times go” e a volte serve qualcuno che ce lo ricordi, anche se non siamo “Born in the U.S.A.”, nati negli Stati Uniti d’America.

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