“Stanotte abbiamo visto lo Spirito del Mondo passare dalle urne”, si potrebbe dire contestualizzando -peraltro malamente- la storica frase di Hegel, ma si sa, quando si assiste ad eventi storici di questa portata si è investiti da un mare di idee, informazioni e speculazioni su ogni ambito per cui è difficile essere abbastanza lucidi per rendersi immediatamente conto delle conseguenze che lo Spirito in questione porta con sé. Specie se stavolta lo Spirito in questione non è Napoleone a cavallo per le strade di Jena, ma un’intera comunità di persone, la Gran Bretagna.
L’impensabile ormai è diventato irreversibile, la Gran Bretagna ha scelto leave the European Union e Cameron si è dimesso, ormai è già storia. Se quello che cercate è un articolo di cronaca, leggete l’Ansa, il Guardian, il Times, The Indipendent o le altre testate europee, perché questo è uno scritto puramente di opinione.
Entrando nel merito delle analisi-della-prim’ora qualche notizia tecnica è comunque necessaria ai fini della trattazione.
Fino al Trattato di Lisbona non era prevista alcuna procedura di exit dall’Unione Europea. Ora invece essa è contemplata all’articolo 50 di tale Trattato. Ovviamente il processo giuridico è assai lungo e complesso, di fatto una volta fatto scattare tale articolo la procedura massima prevista è di non oltre due anni, ma se consideriamo tutti i rapporti giuridico-economici da rinegoziare andiamo ben oltre i 7 anni, forse più di dieci – riferisce il governo britannico.
Il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha assicurato che non vi sarà alcun vuoto normativo nel frattempo, ma al contrario la legislazione europea resterà in vigore Oltremanica fino all’uscita formale. “Questo significa diritti e doveri” ha precisato Tusk.
Il resto è ormai noto, borse sprofondate, valute impazzite, mercati in subbuglio. Il sistema finanziario è messo in crisi dalla fiducia degli investitori spaventati dall’annunciata crisi in caso di Brexit e dalle speculazioni conseguenti. Chi avrebbe pensato il contrario? Nessuno, c’era da aspettarselo, e per quanto sia una reazione aleatoria, è comunque la naturale conseguenza di una simile svolta politica.
L’unica certezza in questo scenario politico precario è che adesso si dovrà aprire una nuova stagione per l’Unione Europea. Da europeista convinto ecco cosa penso.
IL REFERENDUM SULLA “BREXIT” E LE VOCI D’OLTREMANICA
Lo scopo del referendum voluto da Cameron era ottenere una vittoria schiacciante del remain per risolvere i problemi di euro-scetticismo e dare maggiore forza alla sua azione di governo. Il referendum si configura allora come la più grande scommessa, dal sapore spiccatamente populista, della storia dell’UE. Una scommessa che in tanti pensavano già vinta. Così però non è stato, e nel suo azzardo Cameron si è trovato responsabile del più grande shock della storia dell’Unione Europea dal dopo-guerra ad oggi, uno shock che per portanza storica e conseguenze politico-economiche è secondo soltanto alla caduta del Muro di Berlino e allo scioglimento del Blocco Sovietico. Stavolta però nessuno, nemmeno quel campione di euro-scetticismo di Nigel Farage, poteva prevedere l’esito di un voto simile, figurarsi poi le conseguenze economiche sul lungo periodo. Mi chiedo allora perché rischiare tanto senza certezze.
Fatto sta che un referendum pensato per unire il Paese ha finito per spaccarlo. Circa 48% contro 52%, Scozia e Irlanda del Nord contro Galles e Inghilterra, ricchi contro poveri, giovani contro vecchi. Insomma, ufficializzare una spaccatura è stato più facile di quanto non potesse sembrare.
E la spaccatura la si vede già nel fatto che la Scozia reclami nuovamente la propria indipendenza, l’Irlanda del Nord lo stesso, entrambe vogliono restare in Europa e andarsene dalle grinfie di Sua Maestà.
E l’economia? La Sterlina? I conti bancari esteri? Il London Stock Exchange Group che gestisce gran parte del flusso finanziario europeo compreso l’indice FTSE Milano Borsa? La bilancia commerciale? L’import e l’export?
Gli economisti britannici più europeisti parlano di “recessione non più prevista ma sicura”, resta il fatto che al momento è difficile fare valutazioni attendibili, perché si sa, il mercato è un sistema alquanto aleatorio, e per quanto sia solido, tutto il sistema finanziario pone le proprie basi sulla fiducia. Fiducia che oggi è venuta a mancare per colpa di un referendum azzardato.
Perché azzardato?
Abbiamo già parlato della manovra imprudente di Cameron, della scissione tra Scozia e Irlanda del Nord –dove a stravincere è stato il remain- e il resto del Regno Unito, ma c’è un’altra questione che vorrei portare all’attenzione del lettore, ed è forse il dato più preoccupante.
Quel che ci riporta questa statistica non può che far arrabbiare le nuove generazioni britanniche. Infatti è davvero fin troppo evidente come il trend del remain tenda a decrescere all’aumentare dell’età, e al netto di valutazioni sociologiche ben più complesse, penso sia abbastanza lecito per i giovani britannici chiedersi se sia giusto che le persone più anziane debbano essere così determinanti per il loro futuro. Il futuro di giovani che hanno votato –nella fascia 18-24- per un remain che si attesta al 64%.
TRA POPULISMI E ABUSI DI DEMOCRAZIA
A questo proposito sarebbe da citare uno dei grandi problemi della politica, la preferenza tra breve e lungo periodo: è meglio far sacrifici nel breve periodo per assicurare un futuro migliore –che molti degli elettori attuali non vedranno mai- oppure scegliere un benessere nel breve periodo tralasciando le possibili ricadute nel futuro? Spesso il populismo o molti politici fautori di politiche economiche espansive, seguono la seconda via, facendo leva sui bisogni immediati del popolo, altri invece scelgono il rigore della prima, provocando –a lungo andare- un certo malcontento nel popolo che si vede costretto a sacrifici per un futuro migliore che forse non vedrà mai.
È ovvio che la strada preferibile sia un giusto connubio tra le due precedenti, ma questo non sempre è possibile, ed ecco che laddove la lungimiranza dei sacrifici in vista del futuro non viene capita bene dal popolo, si insedia tenace il populismo con promesse assurde che mirano a soddisfare il momentaneo beneplacito della pancia dell’elettore ma non il bene futuro del paese.
Questo è il vero problema, e come può essere evitato?
Quando si affrontano questioni così importanti, determinanti, dallo spiccato valore sovranazionale, con una forte valenza futura, e soprattutto tecniche, non è mai una buona prassi ricorrere allo strumento migliore di democrazia diretta: il referendum. Senza soffermarsi troppo sul “governo dei saggi” auspicato da Platone ne “La Repubblica”, va comunque riconosciuto che la democrazia diretta non sempre è uno strumento perseguibile in ambito democratico-repubblicano. Non a caso le moderne democrazie occidentali si basano su deleghe e rappresentanza. La rappresentanza è lo strumento migliore per garantire che colui che viene chiamato a rappresentare l’elettore abbia delle competenze tecniche e politiche che gli permettano di prendere parte alla gestione della Cosa Pubblica, poi che non sempre sia così è un altro problema.
In Italia ad esempio l’articolo 75 della Costituzione ci dice che non possono essere indetti referendum abrogativi su “leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Questo è stato uno strumento molto lungimirante adottato dai Padri –e le Madri- Costituenti per evitare scenari in cui il popolo venga chiamato a decidere su tali materie senza averne le giuste competenze.
Il problema si sostanzia in una questione di metodo, e allora appare evidente che certe decisioni per la lungimiranza e le competenze richieste, non possono essere lasciate nelle mani del popolo.
LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ NAZIONALE
Altra questione è invece quella dell’identità nazionale: se i britannici non si sentono cittadini europei è giusto che restino? A questa domanda non mi sento di rispondere per un semplice fatto: fin quando fa comodo l’identità nazionale c’è, quando comodo non fa più improvvisamente sparisce. E in questa Gran Bretagna uscita del referendum come Regno Dis-Unito quelli che si troveranno maggiormente a fare i conti con le conseguenze saranno gli stessi che hanno creduto alla favola di una Gran Bretagna più solida, ricca, unita e competitiva fuori dall’UE che non dentro.
L’identità nazionale stavolta è più una scusa che altro.
Detto questo se davvero i sudditi di Sua Maestà fossero contenti di uscire (anche se un circa 5% di scarto non è poi così rilevante) sono liberi di farlo, la questione però è “dentro è dentro – fuori è fuori”.
DENTRO È DENTRO – FUORI È FUORI
Le ragioni più utilizzate dai britannici a sostegno della Brexit sono state il deficit di democrazia a Bruxelles, la debolezza delle economie dell’Eurozona e soprattutto la libera circolazione delle persone. I leader a favore della Brexit hanno promesso un’economia fiorente in caso di Brexit, quello che ignorano però è che per aver accesso al mercato dei capitali più fiorente del mondo vanno accettate certe condizioni, tra cui la libera circolazione delle persone. Lo sa bene la Norvegia, che ha accettato questo lascia-passare in cambio di un accesso al mercato europeo.
Queste ragioni ci dicono tanto sulla scelta britannica, una scelta che non guarda all’identità nazionale, ma ai propri interessi nazionali, cosa ben diversa e molto più subdola. Come al solito la Gran Bretagna si conferma come il paese più egoista del Vecchio Continente. Ma se queste osservazioni di ricchezza interna potevano essere valide ai tempi in cui il Commonwealth era fiorente, oggi senza un accesso al mercato europeo dei capitali la Gran Bretagna da sola non può pensare di massimizzare la propria ricchezza.
Ed è proprio su questo giusto ricatto politico che l’Unione Europea potrà fare leva nei prossimi anni per penalizzare la scelta della Gran Bretagna. Ed è giusto così, perché se si sta dentro, si è dentro, e allora le regole sono le stesse per tutti –oneri e onori compresi-, se invece si è fuori allora si è fuori e se ne accettano le conseguenze. Nessun Paese può permettersi di dominare sugli altri.
LE COLPE DELL’ESTABLISHMENT E I POSSIBILI SCENARI FUTURI PER L’UE
Guardando alla faccenda nella sua interezza è forse il caso di parlare anche delle colpe dell’establishment UE rispetto a quella fetta di popolo britannico impoverito a causa delle costrizioni made in UE. Anche su questo c’è poco da dire, la Gran Bretagna non è la Grecia, né tanto meno uno dei paesi che ha particolarmente subito la politica del rigore di matrice tedesca. La Gran Bretagna è forse uno dei paesi che maggiormente ha giovato della propria posizione privilegiata nell’Unione Europea, ed è forse il Paese che più di tutti ha remato contro una cessione della sovranità popolare ad un livello sovranazionale. Per questo non me la sento di addossare tutte le colpe all’establishment UE. Tutte no, ma una buona parte sì.
Ed è proprio su queste colpe che s’insidia la domanda futura: che ne sarà dell’Unione Europea senza la Gran Bretagna?
A questa domanda non si può rispondere senza un excursus più complesso.
Mario Draghi, il governatore della BCE in un’intervista rilasciata al Sole 24 Ore il 28 novembre 2014 ha spiegato che l’unico modo di superare la crisi economica è l’ulteriore accentramento degli strumenti di politica economica. Attualmente l’UE può decidere e operare in autonomia soltanto in campo di politica monetaria, secondo Draghi invece dovrebbero essere decisi a livello europeo anche le politiche fiscali, le politiche di bilancio e quelle dei redditi.
L’unico obiettivo dell’UE (in questo caso della BCE) non può essere quello della stabilità dei prezzi, l’unica via per creare un’equità sociale, una crescita del capitale reale e per favorire la cooperazione degli stati all’insegna di uno sviluppo sano dell’economia è la gestione di tutte le politiche economiche –e non solo- a livello sovranazionale.
Quest’obiettivo non si può raggiungere se non lo si affianca a riforme costituzionali ed istituzionali dell’UE ma soprattutto non lo si può raggiungere senza creare –o rafforzare- la fiducia dei popoli dell’UE nelle sue istituzioni. Perché la crisi politica del vecchio continente, il dilagare dell’anti-europeismo e dell’euro-scetticismo vedono come causa principale proprio la crisi di fiducia nelle Istituzione Europee.
Alla luce di questo ragionamento non possiamo che giungere alla conclusione che sarà possibile superare la crisi soltanto con un percorso tanto lungo quanto necessario. Il presupposto necessario per creare un’Europa unita è quello di affiancare allo sviluppo dell’unione politica anche la creazione e diffusione di un’identità sovranazionale europea. Alcune delle idee più percorribili in questo senso potrebbero essere favorire la diffusione di programmi in stile Erasmus per creare nelle persone, soprattutto nelle nuove generazioni l’idea di appartenere ad unico grande stato. Altre idee sono ad esempio quelle di favorire lo studio della lingua inglese, creare graduatorie scolastiche comuni, incentivare i viaggi studio e creare un Servizio Civile europeo obbligatorio. Sono questi i più rapidi sistemi di diffusione di un’identità sovranazionale, un po’ quello che si è fatto in Italia nel dopoguerra con la leva obbligatoria. Soltanto così si potrà creare davvero un’Unione Europea.
La crisi delle istituzioni che stiamo vivendo è data da una parte dalle grandi disparità sociali e dall’immigrazione selvaggia –che meriterebbe un capitolo a parte- e dall’altra dalla crisi economica e valoriale, il presupposto per tornare a sperare e a costruire un’Europa più giusta è riscoprire i grandi valori che stanno dietro questo progetto. Per questo non si può prescindere dal ridiscutere un’identità comune, prima culturale e valoriale, poi economica e politica. Cosa peraltro avvenuta nel Secondo Dopo Guerra.
IL MANIFESTO DI VENTOTENE
Durante la seconda guerra mondiale in una piccola isola sperduta nel Mediterraneo avvenne qualcosa di fondamentale per il futuro dell’Europa. Tre anti-fascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nei lunghi giorni di esilio sull’isola di Ventotene, si interrogarono a fondo su quali fossero le prospettive post-belliche e su come costruire un mondo diverso. Un mondo dove ognuno sarebbe potuto essere libero di lavorare e di avere i propri diritti. Un mondo dove impedire nuove guerre e favorire la cooperazione tra le diverse identità nazionali. Ovviamente il comune denominatore del loro pensiero era il distacco dalle grandi ideologie e dai grandi nazionalismi del ‘900 in un’ottica di innovazione e superamento ideologico volte al Bene Comune.
Fu così che nel 1943 scrissero e diffusero clandestinamente il Manifesto di Ventotene, il primo documento di ambito politico in cui viene pensata in termini moderni un’Unione Europea federale.
Ma perché nel 1943 fu pensata proprio un’unione federale europea?
Occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantener un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli. Un’Europa libera e unita è premessa necessaria per il potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro le disuguaglianze e i privilegi sociali.
(Tratto dal Manifesto di Ventotene)
L’Unione Europea non fu pensata come i grandi Imperi Europei del passato, ma come una federazione di stati in cui ciascun paese potesse mantenere i propri costumi, le proprie tradizioni pur appartenendo a qualcosa di più grande. La Federazione Europea in questa ottica è l’Europa della cooperazione, dei diritti, della libertà e dell’unione volta al potenziamento della civiltà moderna. Un esercito unico, una politica economica comune, una strategia estera unificata e un sistema economico di libera concorrenza, regolamentato e anti-monopolistico. La grande intuizione dei padri fondatori europei, a mio avviso, fu che non c’è progresso senza la cooperazione ed il superamento delle autonomie nazionali e non vi è niente di questo senza la libertà; non apparteniamo ognuno ad una sola nazione ma apparteniamo tutti ad un unico popolo: l’umanità. Per questo il primo passo verso una cooperazione globale non può che essere la creazione di un’Europa unita e libera.
Sono questi i valori che abbiamo bisogno di riscoprire per portare avanti il progetto di un’Unione Europea che serva davvero per creare un mondo più giusto.
I SOGNI DI UN EUROPEISTA
Dunque anche se la vittoria del leave offrirà molto spazio agli anti-europeisti, quel che un’europeista deve fare è continuare a sognare un’Europa unita, senza mai smettere di impegnarsi concretamente perché questo sogno possa pian piano diventare realtà.
Quello che è ben più importante è iniziare a costruire una vera unione politica ed economica europea con i Paesi aderenti. Anche senza la Gran Bretagna, che nessuno è intenzionato ad obbligare a tornare sui suoi passi. D’altra parte come dice il detto, meglio pochi ma buoni.
E allora continuiamo a sognare, senza la Gran Bretagna, a sognare più forte di prima, più determinati che mai. Ed io sogno.
Sogno un’UE federata, libera, più giusta e solidale in cui le politiche monetarie, economiche, fiscali e dei redditi, sono decise a livello centrale.
Sogno un’UE con un esercito comune.
Sogno un’UE con politiche di welfare comuni.
Sogno un’UE con un’implementazione di programmi quali Erasmus e Servizio Civile per creare un’identità sovranazionale forte nelle nuove generazioni.
Sogno un’UE con un apparato esecutivo decentrato che valorizzi in sede esecutiva le singole identità dei popoli che la compongono.
Sogno un’UE in cui viene eletto un Presidente di tutti, un’UE in cui il ministro degli esteri rappresenta tutta l’Unione.
Sogno un’UE che vigila con le sue Istituzioni in un sistema economico di libero scambio.
Sogno un’UE con codici normativi comuni su cui adeguare leggi nazionali.
Questo e ancora molto sogno su una nuova UE.
Un’Europa libera e federale è l’unica garanzia per la pace nei popoli e per abbattere progressivamente quelle ingiuste diseguaglianze socio-economiche tra i vari paesi che la compongono.
Per questo non crederò mai a chi vuole tornare indietro alle singole sovranità nazionali, alla chiusura delle frontiere, a monete vecchie con la scusa di attuare misure concorrenziali impensabili oggi.
Per fortuna che non sono e mai sono stato il solo a sognarla.
Da Ventotene ad oggi esiste una speranza per il futuro, una via da percorrere sia politicamente che fattivamente, finché questa speranza resterà viva nelle nuove generazioni nessuno potrà abbattere il sogno di un domani migliore.
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