A distanza di duemila anni dalla morte di Ottaviano Augusto, deceduto il 9 Agosto dell’anno 14 d.C., ricordiamo il grande Imperator, colui che vantò di “aver trovato una città di mattoni e aver lasciato una città di marmo”: infatti Ottaviano fece innalzare veramente molti tesori, finanziati anche e soprattutto con i soldi del fiscus, ovvero il tesoro personale dell’imperatore (“prelevato” come tassa dalle ricchissime province imperiali), come il Foro di Augusto, il Tempio di Apollo, il tempio del Divo Giulio ma anche ponti e acquedotti; inoltre dette via anche ad opere di restauro, ne è esempio il tempio di Giove; cercò di rendere più sicura la città allargando il letto del Tevere per evitare inondazioni e lo ripulì dai sassi e dai detriti; istituì in tutta la città, già divisa in regioni e quartieri, i vigiles, ovvero i moderni pompieri (Roma era facilmente incendiabile, visto che gran parte degli edifici era fatta di legno e c’era una grande sovrappopolazione) con, inoltre, la funzione di vigile per tenere sotto controllo i reati.
Nonostante fosse giunto al potere con astuzia e molta propaganda, mantenne la promessa di riappacificare Roma: così si proponeva Augusto, come pacificatore di Roma. guadagnandosi molti sostenitori, poiché i cittadini erano sempre più sfiancati dalla guerra; aiutò la popolazione con frequenti distribuzioni di grano (frumentationes) e garantendo non solo l’ordine pubblico, ma anche la sicurezza che nessuno potesse più marciare sulla città: infatti, governò le province dell’Impero attraverso dei governatori della classe senatoria nelle regioni più tranquille e quindi meno bisognose delle forze armate (chi, senza esercito, avrebbe potuto scalfire minimamente Roma?) e con i legati, i fedelissimi di Augusto, che controllavano le zone più ricche come l’Egitto, la Spagna e la Gallia; i soldi che arrivavano dalle aree conquistate a Roma erano abbastanza per escludere l’Italia dal pagare le tasse.
Anche Virgilio, nelle Georgiche, appoggia il dominio augusteo attribuendo ad esso val0ri come quelli della pace, della famiglia, della religiosità e della sobrietà, che erano effettivamente gli obbiettivi di Ottaviano, quelli che si proponeva di restaurare riprendendoli dall’età repubblicana (riabilitazione del “mos maiorum”, il “costume degli antenati).
Per il divertimento dei romani, Augusto usò i suoi “fondi” per i giochi e gli spettacoli, quindi, oltre al teatro (per esempio), offrì panem et circenses, ovvero pane e giochi del circo con scontri tra gladiatori e distribuzioni di grano; seguì le orme di Cesare e fece svolgere altre naumachie, cioè le riproduzioni delle battaglie navali più famose come la battaglia di Azio (31 a.C.), ed anche questa era propaganda: il sovrano, che si faceva chiamare, comunque, princeps senatus (princeps sta a significare “princeps inter pares”, primo tra i pari, un ossimoro, riferito al Principato) per non ammettere di essere di fatto un “dittatore” o “tiranno”, espressione ormai diventata spauracchio a Roma, quasi un tabù, e non volle mai far apparire Marco Antonio, acerrimo rivale sconfitto in quella battaglia, come un romano con cui intraprese una guerra civile, ma, piuttosto, un traditore. Addirittura Orazio, uno dei letterati che, tramite Mecenate, il più fidato tra i consiglieri dell’imperatore, scriveva elogi per lui nelle Odi e voglio riportare questo passo:
Non era lecito prima togliere il Cecubo
dalle cantine dei padri, quando la regina
meditava al Campidoglio una folle
rovina e all’impero la fine
con il suo gregge di uomini
svergognati e sfregiati,
senza limite nelle speranze,
ubriaca di dolce fortuna. ma la sua pazzia
la guarì l’unica nave scampata a stento alle fiamme,
e la mente sconvolta dal Mareotico
Cesare la riportò alla terribile
realtà, incalzandola nella sua fuga
dall’Italia coi remi, come lo sparviero
insegue le timide colombe o il cacciatore
una lepre sui campi nevosi
della Tessaglia per mettere il mostro fatale
in catene. però lei nobilmente
cercò la morte, e della spada non ebbe
la paura che hanno le donne, e non riparò
con la flotta su spiagge nascoste;
con volto sereno osò guardare
la reggia distrutta e tenere in mano
i serpenti feroci e accogliere nel suo corpo
il nero veleno, più fiera
per aver deciso la morte,
così da togliere le navi crudeli
si portarla da privata, lei, donna
non umile, nel superbo trionfo.
Qui non noteremo mai il nome di Marco Antonio, perché, se non per definirlo traditore, i letterati vicini ad Augusto evitano di parlarne per non richiamare il tema della guerra civile; Cleopatra è rappresentata come folle, regina di un popolo di svergognati, ma quasi virile nell’accettare la sconfitta e nobile nell’andare incontro alla morte senza temerla: così Orazio celebra la vittoria di Roma su uno straniero aberrante ma potente, rendendola così più schiacciante e onorevole.
Ottaviano Augusto fu anche pontifex maximus e, oltre a praticare le normali funzioni religiose di un pontifex, manovrò abilmente la sua influenza in questi termini in tutto l’Impero: in Oriente autorizzò la divinizzazione della sua persona, mentre in Occidente, dove la pratica assunta nel primo caso non sarebbe certo stata vista di buon occhio, permise la venerazione del genius Augusti (il genio di Augusto), ovvero del suo “spirito”, il nume (divinità) tutelare. Nella sua propaganda, inoltre, Ottaviano si proclama discendente di Venere, perché Enea, fondatore di Roma nel culto romano, dette vita alla Gens Iulia che, nel tempo, dopo davvero molte generazioni, portò anche a lui, Augusto… non male come pubblicità! “Augusto” è il titolo datogli nel 27 a.C. dal senato e significa “venerabile”. Chi se non lui?
Ci furono anche delle pecche nell’età augustea, ma le imprese dette spesso “eroiche” erano talmente enfatizzate che non c’era una grande considerazione di questi difetti; la disfatta di Teutoburgo, nelle Gallie, nel 9 d.C., portò ad una vergogosa sconfitta per i Romani: una manciata di germani, guidati da Varo, distrussero completamente tre legioni romane; Tito Livio ci dice che l’imperatore ne rimase così sconcertato che camminava per il suo palazzo gridando “Varo, rendimi le mie legioni!”. Un’altra pecca nota e importante riguardò la figlia Giulia, che si sposò tre volte e rimase per due volte vedova, era veramente una donna dai facili costumi e tradì tutti i mariti, probabilmente, ma non sicuramente, addirittura giacendo con più uomini durante, prima e dopo i matrimoni. Ovidio fu esiliato a Tomi (Romania) a causa di Giulia, ma non sappiamo esattamente se fosse coinvolto direttamente negli scandali con lei o se solo ne fosse venuto a conoscenza, e per la sua “Ars Amatoria”, opera che suggeriva le maniere in cui uomini e donne potevano sedurre e conquistare degli amanti.
La sincerità certo non fu il forte di Augusto, ma la sua grande intelligenza e astuzia lo rende celebre come e quanto le opere fatte per Roma.
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