La rinascita culturale è fondamentale per un Paese dilaniato da una guerra fratricida. La cultura costituisce per una Nazione ferita un balsamo per il cuore afflitto del suo popolo, e pone in seguito le fondamenta per un nuovo inizio.
Ecco perché la ricostruzione e la riapertura al pubblico, avvenuta lo scorso 9 maggio, della biblioteca nazionale di Sarajevo, la famosa Vijecnica (termine traducibile con Municipio), è stata così importante. Una ricostruzione dal sapore internazionale, in quanto numerosi Stati esteri, Turchia in primis, vi hanno contribuito economicamente. Costruita in stile moresco per volontà degli Asburgo dall’ architetto di origini praghesi Alexander Vitek, che si ispirò a una madrasa del Cairo, ha costituito, con il suo prezioso contenuto di oltre due milioni di libri( 155.000 esemplari rari e preziosi e 478 manoscritti, fra cui documenti risalenti al medioevo), non solo il simbolo di una città e della sua peculiare tradizione culturale, ma anche un esempio di una perfetta integrazione, durata per secoli, fra tradizioni religiose (musulmana, cristiano-ortodossa, cristiano-cattolica ed ebraica) ed etnie ( serba, bosniaca, croata) distinte. Una brillante dimostrazione di coesistenza di genti differenti che si rispecchia anche nello stesso paesaggio urbano di Sarajevo: nel raggio di poche centinaia di metri si stagliano la moschea di Gazi Husrev-beg, la cattedrale cattolica, la chiesa ortodossa e la vecchia sinagoga.
Per questo, in una notte d’agosto del 1992, i nazionalisti serbi bombardarono quel tempio della conoscenza, emblema di una convivenza pacifica unica al mondo troppo scomoda in un conflitto di natura politico-economica e sociale, volontariamente trasformato da Slobodan Milošević e Radovan Karadžić in una guerra etnica. Lo scrittore bosniaco Goran Simić a proposito di quella notte, che a molti sembrò sancire la fine di un popolo e della sua memoria storico-culturale, scrisse:
“ Liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto; Quasimondo dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane Soyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov.”
Per non parlare del diabolico parossismo raggiunto quando ai cecchini fu ordinato di sparare su vigili del fuoco e volontari accorsi sul posto per salvare quanti più volumi possibili, quasi si trattasse di uomini e non di libri. Ma suonò come una beffa ai danni di quanti vollero estinguere con il fuoco l’identità di un popolo che era stato capace di sacralizzare le diversità, il fatto che antichi tomi ebraici fossero stati salvati a costo della vita proprio da un musulmano.
Ma siamo ancora ben lontani da un ritorno a una pacifica e civile convivenza. La ristrutturazione della Vijecnica ha portato alla luce le profonde spaccature ereditate dal conflitto dei primi anni Novanta e non ancora estinte. Basti pensare che, durante la cerimonia del 9 maggio scorso, il direttore della biblioteca ha affermato di non accettare “di tornare da ospiti in casa nostra, dopo essere stati cacciati a colpi di proiettili incendiari”, mentre il primo ministro serbo Vučić non sarà presente alla prossima inaugurazione. Come se non bastasse, le forti tensioni legate alle elezioni politiche del prossimo ottobre, hanno costretto l’UNPROFOR ( United Nations Protection Force) a schierare i propri carri armati nella capitale, segno evidente della grave instabilità che attanaglia questa regione. Un’instabilità che sembra affondare le proprie radici negli accordi di Dayton, i quali, se da un lato sono stati capaci di sancire la fine del conflitto, dall’altro hanno portato alla nascita di nuove e ancor più pericolose divisioni.
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