Entra in scena Marco Paolini, piazzandosi subito di fronte al pubblico. Lo osserva. Esita. Dopo qualche istante di silenzio mostra il dito indice, scuotendolo come per indicare un “no” netto. “Non sono io“, esclama, “io stasera sono Jack London!”… Con queste parole ha inizio lo spettacolo-monologo, dalla forma di un canzoniere teatrale, che, dopo svariate performance nei principali teatri italiani, sbarca al Goldoni di Livorno.
Qui l’appunta
“Non sono un esempio per le nuove generazioni; e voi mi mettete sullo scaffale dei libri per ragazzi” precisa infatti Paolini /London, prendendo le distanze da chi relega lo scrittore di “Zanna bianca” e “Il richiamo della foresta” nello spazio della letteratura per giovanissimi. Non è un caso infatti che la scenografia sia rappresentata da barili d’acciaio e fusti di birra disseminati sul palco, come ad indicare ironicamente quanto sia stato capace di scolarsi in vita lo scrittore americano. Senza dimenticare che Jack London, oltre ad avere problemi con l’alcool, visse all’insegna del vagabondaggio e di idee socialiste (si fece suggestionare da Nietzsche, Marx, Saint-Simon, Spencer, che non erano certo ben visti nel panorama statunitense). Inoltre morì suicida a 40 anni: non proprio un’immagine edificante per i più giovani.
Le vicende di uomini e cani sono dunque rimescolate sin dal primo dei tre racconti, Macchia: qui in realtà non siamo ancora in presenza della crudezza e degli istinti ferali che caratterizzano gli altri due racconti, bensì di una certa leggerezza e simpatia che è in grado di evocare un buffo e sfaticato cane, Macchia, inutile e porta-sfortuna ai fini delle ricerche e delle esplorazioni che il suo padrone, con gli altri membri della spedizione, avanzano per trovare rifornimenti d’oro ( tema questo che ha un chiaro riferimento biografico visto che Jack stesso, mosso da povertà e speranza, si unì alla corsa all’oro nel Klondike, tra il Canada e l’Alaska); e inutili sono anche i tentativi del padrone di liberarsi di questo cane: anche dopo l’ennesimo abbandono, Macchia ritorna da lui, mosso da un’instancabile fedeltà. Difficile è il rapporto padrone-cane anche nel secondo racconto, Bastardo; qui però è l’odio, più che l’amore, a muovere la vita e a portare il cane, non a caso chiamato Bastardo, a “pensare”, a percepire di voler ammazzare il suo padrone. Ancora più freddo e duro è il terzo racconto, Preparare un fuoco, dove il pathos arriva al culmine con la durezza, l’indifferenza leopardiana della natura, e con la predominanza dell’istinto di sopravvivenza rispetto al rapporto di amicizia: il cane qui si distacca dal padrone che sta morendo assiderato, disperso nella neve a 40 gradi sotto zero, mentre prova ad accendere inutilmente un fuoco. Distacco che stavolta non sa di vendetta delle violenze subite dal cane, ma di sofferenza: soffre nel vedere il padrone agonizzante ma sa anche che deve fuggire alla ricerca di un fuoco se non vuole morire di freddo anche lui. A questo destino infame, a questo pessimismo cosmico, non resta che rassegnarsi. Al di là di questa nuda riflessione esistenziale però Paolini vuole anche spronare a reagire, essendo anche un’accusa contro chi «la mattina, quando scende dal letto, sa già dove sono le pantofole per inforcarle senza toccare il pavimento freddo, e poi va in cucina e accende il fuoco per scaldare la moka preparata la sera prima», una delle tipologie di uomini sedentari su cui Paolini ironizza durante il suo spettacolo, contrapponendoli agli instancabili cercatori d’oro e agli esploratori di ghiacciai protagonisti dei racconti ispirati alle storie di Jack London.
Il tutto è accompagnato e scandito dalle musiche originali di Lorenzo Monguzzi, accompagnato sul palco dal clarinetto di Angelo Baselli, e dalla fisarmonica di Gianluca Casadei. Musiche che non sono dei semplici accompagnamenti, bensì parte integrante della narrazione: i tre suonano e cantano composizioni originali che si sposano con la voce di Paolini e con le atmosfere da lui evocate: elementi questi indispensabili per scandire un ritmo che, assieme alle parole, siano il frutto di una precisa scelta stilistica, drammaturgica e poetica; e che fanno di Ballata di uomini e cani, come Paolini stesso definisce, “il suo atto di libertà sul palcoscenico”.