Non è mia intenzione quella di entrare nel merito del referendum del 17 Aprile, piuttosto è mia volontà quella di analizzare in maniera lucida la possibilità di un’astensione referendaria come scelta politica.
Recentemente Michele Ainis sul Corriere della Sera ha scritto un articolo in cui ha ricordato che a chiunque sia “investito di un pubblico potere”, ai sensi dell’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera e dell’articolo 51 della legge che disciplina i referendum, è vietato “organizzare l’astensione”. Il rischio è una pena detentiva che va dai 6 mesi ai 3 anni. Queste norme sono figlie di altri tempi, ma di fatto non sono mai state abrogate. E stavolta a fare scuola è l’esposto formale che il senatore pentastellato Maurizio Buccarella ha fatto alla viceministro dello sviluppo economico Teresa Bellanova per un’intervista rilasciata all’Unità il 27 marzo scorso, in cui ha chiaramente invitato gli elettori all’astensione.
Ma se questa vicenda si rivolge meramente alle istituzioni altra cosa è la questione nel suo complesso.
Il Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi si è recentemente espresso in vista del referendum del 17 aprile invitando tutti al voto: “Votare al referendum fa parte della carta d’identità del buon cittadino. […] Si deve votare al referendum, certamente nel modo in cui il cittadino riterrà di votare, ma credo si debba partecipare al voto”.
Il Presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano, in un’intervista a Goffredo De Marchis su Repubblica, alla domanda “È legittimo invitare all’astensione?” ha risposto: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto sia causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”.
Scendendo nel merito delle due posizioni sono evidenti i rimandi a due leggi Costituzionali, il primo – di Grossi- all’articolo 48, mentre il secondo – di Napolitano- all’articolo 75.
L’articolo 48 in un titolo dedicato ai “Rapporti politici” definisce il diritto di voto qualificandolo come “dovere civico”. Questa definizione è frutto di un compromesso maturato all’Assemblea Costituente tra i sostenitori del voto obbligatorio e quelli del voto come dovere morale. La ratio secondo un’interpretazione giuridica che tenga conto della volontà del legislatore è giustappunto quella di una via di mezzo tra un obbligo e un dovere morale.
Fermandosi a questo articolo sembrerebbe scontato dare ragione a chi -il Presidente Grossi- spinge al voto come dovere. Sennonché l’articolo 75 chiarisce che in sede di referendum la Costituzione prevede la sua validità solo qualora venga raggiunto il quorum richiesto. Si viene a delineare quindi un tratto specifico del voto referendario, distinto dal voto politico, che rende evidente una seconda considerazione. E cioè che nel referendum l’astensione ha il valore politico di scelta.
Questo esplicita la fondatezza del discorso di Napolitano, secondo cui la scelta di chi decide di astenersi, ritenendo, a torto o ragione, il quesito referendario formulato in maniera equivoca, o l’iniziativa referendaria inconsistente, sia comunque una scelta politica valida e rispettosa dei doveri e diritti del cittadino. Ovviamente in questa valutazione non è considerato chi, per disinformazione o mancanza di voglia, sceglie di non votare, la scelta in questo caso confluisce in quella fascia di “elettorato passivo” che toglie ad essa ogni valore politico.
L’astensione referendaria secondo la logica di Napolitano ha un valore di scelta politica e dovere civico perché il cittadino che compie questa scelta lo fa pensando di contribuire maggiormente al bene comune facendo fallire il referendum equivoco, dannoso o inconsistente.
Norberto Bobbio nel giugno 1990 denunziò l’astensionismo come un “trucco”, un mero espediente per far saltare il quorum. Mentre altre contestazioni, ben più recenti, considerano l’astensione come un “regalo ai no”. Pur essendo vero che la differenza sostanziale sta nella scelta che guida l’elettore, i risvolti pratici indicati dalle due precedenti confutazioni, specie la seconda, sono del tutto veritieri. Ma si sa, la politica spesso ricorre a vie traverse, seppur legali e frutto di scelte, per raggiungere dei risultati. In questo contesto, la scelta su cosa sia meglio fare per la società è sempre rimessa alla coscienza del cittadino chiamato a dare tre risposte possibili anziché due: “sì”, “no”, “domanda equivoca, dannosa o inconsistente”.
Mi risulta difficile secondo questa logica pensare che l’astensionismo non possa inquadrarsi come una scelta politica consapevole e motivata.
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