21 Novembre 2024

Questo lunedì inauguriamo la nostra nuova rubrica settimanale “Storie brevi”, una raccolta di piccole storie con vari temi e stili, ma sempre brevi e dirette al lettore. La nostra prima storia è dedicata alla commemorazione della tragica alluvione che a cavallo tra il 9 e il 10 settembre 2017 colpì Livorno. Una ferita che rivive in questo racconto frutto di realtà e fantasia. Buona lettura!

 

a cura di Simone Bacci

Era un sabato di inizio settembre, uno di quelli in cui si cerca di godere degli ultimi giorni di estate preparando lo spirito all’inizio di un nuovo anno. Ciascuno ha il suo rituale di fine estate: l’ultimo bagno al mare, una cena d’addio, una passeggiata in solitaria, e anche io come tutti ero alla ricerca del mio spleen personale, nell’illusione che qualcosa avrebbe reso quel giorno diverso da tutti gli altri.


Quella sera Gianmarco venne a cena da me, ma prima di portarlo dai miei, che sicuramente lo avrebbero riempito di domande sui suoi ultimi mesi di vita, eravamo andati al Santuario di Montenero a guardare la città che veniva coperta dal crepuscolo settembrino. In virtù della nostra amicizia bevemmo una birra pensando a quel che sarebbe stato l’anno che stava per iniziare. Lui mi parlò dei suoi dubbi per il futuro e io dei miei: in quei giorni non riuscivo a pensare ad altro che all’amore viscerale per una ragazza che non potevo avere, ma che desideravo più della mia stessa vita. Fu così che in quell’oretta passata a confessarci come non facevamo da tempo, tutte le questioni che portavamo con noi sfumarono lente nei nuvoloni neri che dal mare venivano dritti verso la città, riempiendo il cielo di lampi.

La pioggia arrivò improvvisa, costringendoci a scappare verso casa, e quando un amico di lunga data torna a cena dai tuoi che vi hanno visti crescere insieme è sempre una festa. Lo fu anche quella sera e quando smise di piovere ci spostammo a casa di un altro amico, dove ci raggiunsero tutti gli altri: era quello il nostro rituale per salutarci prima dei rientri nelle nostre città. Gianmarco tornava a Milano, gli altri alle loro università mentre io ero tra i pochi a restare.

Fu verso le una di notte che la pioggia iniziò a riempire i solchi delle delle finestre, costringendoci a tamponare con dei panni le pozze che si erano formate sul pavimento. Era la pioggia più forte mai vista, e quando mio fratello mi chiamò per avere un passaggio verso casa, lo passai a prendere al volo e provammo a tornare. Prendemmo la Variante, ma la galleria era già allagata, e la polizia in contromano ci obbligò a tornare indietro. Provammo la seconda via, verso la Chiesa dell’Apparizione, ma d’improvviso venne una scarica di pioggia così forte da oscurare persino i bordi della strada e costringerci a fermarci posteggiati. Quando diminuì ci accorgemmo che a cento metri da noi non c’era più la strada, ma un fiume che scorreva impetuoso. Per la prima volta in vita mia ebbi paura di non farcela e tornai indietro, ma in quella che sembrava la nostra incoscienza ancora non ci eravamo resi conto di cosa fosse successo davvero. Provammo ad aggirare quella strada passando dalla Scopaia e Collinaia: c’erano venti centimetri d’acqua più o meno dappertutto, l’auto andava a fatica e i residenti erano scesi nelle strade a lottare con il primo fango. Arrivati quasi in fondo a Via Grotta delle Fate la strada davanti a noi non c’era più: era sommersa, con le auto che galleggiavano trascinate dalla corrente in direzione del mare. Scendemmo fuori, con i fari ancora accesi rivolti verso quel mare di distruzione, e subito notammo gli ululati di terrore dei cani dispersi nel fiume. Fu in quel momento che accorgendosi dei nostri fari ci venne incontro un signore anziano che nuotava nell’acqua. Si teneva stretto al guard rail nel tentativo di raggiungere la propria auto capovolta e ormai piena di fango.

C’è mia moglie in auto, disse lui. E il freno di dietro si accendeva e spegneva, come se qualcuno provasse a pigiarlo per segnalare la propria presenza. Subito si tuffò un altro uomo dietro di noi che indossava un lungo impermeabile verde, ma nell’auto non c’era nessuno. Mi offrii di accompagnare l’anziano signore a casa sua qualche centinaia di metri dietro di noi, perché era completamente fradicio e tremava di un misto tra freddo e nervoso e arrivati al civico indicato sua moglie era lì che lo aspettava: erano entrambi sotto choc ma vivi. Quello fu il primo momento in cui realizzammo che era successo qualcosa di spaventoso, che in gioco c’era la vita di persone. Quanti come i due coniugi sarebbero stati così fortunati?

Tornammo indietro, e provammo l’ultima strada, quella del Lungomare, ma i Tre Ponti erano chiusi da un mezzo dei Vigili del Fuoco messo di traverso, e noi non avevamo altre strade per andare a casa. Alle 6 del mattino ci arrendemmo e bussammo alla porta di Gianmarco per farci ospitare, senza avere altre notizie sul resto della città. Mi svegliai tre ore dopo e la prima cosa a cui pensai fu a lei: non sapevo se stava bene, ma evitai di scriverle, poi presi la macchina e guardai con i miei occhi la devastazione per tutta la città, soprattutto in periferia nord e a sud, vicino ai fiumi che scorrevano verso il mare, accanto a diverse case e villette.

Fu istintivo l’andare con qualche amico a dare una mano, e mentre i morti salivano, tra i dispersi restava solo la giovane moglie di un ragazzo trovato appeso a un tronco alla foce del fiume. Lo avevano ritrovato a due chilometri da casa sua, vicino al mare: era al limite delle forze, distrutto e spaventato, ma era vivo, e aveva con sé la speranza di trovare sua moglie.


Si attivò immediata la macchina dei soccorsi, e migliaia di ragazzi che come me fino al giorno prima erano presi dal pensare alle loro vite, si dimenticarono di loro stessi per ricostruire ciò che amavano e aiutare le persone vicine, le stesse che fino al giorno prima neanche salutavano, ma che in quel momento avevano bisogno di una mano per non perdere la speranza, oltre a tutto quello che di più caro avevano con sé. Furono ribattezzati dalla stampa “i bimbi motosi”, la nostra migliore gioventù.

In quel momento di frustrazione la voglia di scriverle un messaggio e dirle tutta la verità era tanta, le volevo chiedere di venire con me a scavare, oppure di stare attenta e non mettersi in pericolo, ma forse volevo semplicemente sentirla, perché è nei momenti più duri che si riordinano le nostre priorità e si tira fuori tutto il coraggio che si ha nascosto dentro. Però per qualche motivo non lo feci, posai il telefono e presi in mano la pala.

Io e Gianmarco ci ritrovammo a dare una mano alle villette sul Lungomare, vicino alla foce del fiume, dove era stato trovato il ragazzo appeso al tronco, laggiù viveva un amico di Gianmarco, e quando vedemmo con i nostri occhi quello che aveva distrutto il fango, lasciammo da parte ogni parola per scavare senza tregua. Scavammo incessantemente, per tutta la mattina e gran parte del pomeriggio, senza mai fermarci, ci dividemmo in turni e ognuno di noi cercò di dare il massimo, ma della ragazza scomparsa non c’era ancora nessuna traccia.

Quella notte finito il turno tornai a casa per riposare, ma dormire non mi riusciva, così decisi di chiamare Gianmarco e raggiungerlo fuori. Girare per le strade sembrava surreale: c’era polizia dovunque, protezione civile da tutta Italia, fango e detriti erano spazzati a lato per liberare le vie al passaggio dei mezzi pesanti, e non volava una foglia. Uscire quella sera mi ha lasciato un ricordo indelebile, perché l’atmosfera non era quella di paura e allerta, ma era molto più simile ad una realizzazione collettiva di ciò che sembrava impossibile: allora è successo davvero.

Andammo a bere una birra sul lungomare, che aveva un colore diverso dal solito, lo si vedeva pure di notte quel color fango intenso, e nessuno di noi due parlò molto quella sera, ci limitammo ad ascoltare in silenzio le onde, poi ci salutammo dandoci appuntamento nello stesso posto il mattino successivo. Quando tornai a casa trovai un suo messaggio su WhatsApp: come stai? E il giorno dopo svegliarsi fu più lieve di quanto avessi potuto immaginare, perché stavolta l’amore mi aveva dato una nuova speranza.

La trovarono quel pomeriggio, quando il sole di metà settembre aveva ormai seccato il fango e ogni speranza nei soccorritori. Ci fu un gran silenzio tra i volontari presenti, mi venne in contro Gianmarco senza dir niente. Bastò un cenno degli occhi e subito capimmo tutti cos’era successo, un attimo in cui si fermò tutto intorno a noi: le onde del mare sulla spiaggia vicina, il canto degli uccelli, i raggi del sole che bruciavano il mio torso nudo e persino il motore delle idrovore che svuotava giorno e notte le cantine. Quel silenzio si trasformò in un corteo funebre di tante parole inespresse di rabbia e sgomento. Vidi passare una barella sporca di fango e a tanti di noi venne istintivo sedersi per guardare verso il fiume con gli occhi fermi, per rispettare la privacy di quel silenzioso corteo. Eravamo stanchi dopo due giorni di scavi, avevamo il fango fin dentro le narici e sopra i capelli, ma il lavoro da fare era ancora tanto, non potevamo fermarci più del nostro turno di riposo.

Fu un volontario con la tuta celeste della Misericordia che per primo tornò con la pala nel fango, mentre nella strada sul retro della villa si levò un urlo così disperato da non poterselo scordare mai più: era quello di una madre al cospetto di una figlia strappata al mondo troppo presto, era l’urlo che dentro tutti noi sedavamo, per rispetto a chiunque avesse perso davvero qualcosa in quella pioggia improvvisa. Poi partirono le sirene, e quel silenzio irreale pian piano se ne andò, inseguendo quel rumore sempre più lontano, come fosse un alone di sgomento che inseguiva la salma tanto attesa. Tutti i rumori che per un attimo erano scomparsi tornarono a farsi sentire: era dura da accettare, ma la vita non si era fermata in quell’argine dietro le villette, dietro il cinismo di una natura che crea e poi distrugge a nostra insaputa.

Fu in quel momento che Mario, un volontario a me vicino, sentì squillare il proprio telefono, si tolse i guanti in gran furia e lo prese nelle sue mani sporche di fango.

Corro da te, disse lui con la voce tremolante, poi buttò giù e si voltò verso gli altri volontari seduti su quello che rimaneva del pratino.

Devo andare all’ospedale, sta nascendo mia figlia, disse con gli occhi lucidi dalla gioia.

Tutti si alzarono per abbracciarlo, anche io che lo conoscevo soltanto da poche ore: perché in quella buona notizia c’era l’incontro inaspettato tra la vita e la morte. Fu quello il primo momento dopo tanti anni di lacrime trattenute in cui tornai piangere e a interrogarmi sul mistero della nostra esistenza. Tutti i pensieri che pochi giorni prima mi riempivano le giornate di ansie e incertezze erano ormai lontani. Forse per la prima volta avevo preso coscienza del valore della nostra esistenza: quella sensazione struggente non me la scorderò mai, mi accompagna tutt’oggi, ogni volta che piove e mi ritrovo a passare negli stessi luoghi. Luoghi un tempo devastati ma oggi rinati, con il sudore dei tanti volontari che in quei giorni per un motivo o per un altro decisero di seguire la speranza e andare avanti.

 

La rubrica Storie brevi è a cura di Simone Bacci, per leggere i suoi libri cliccate qui

 

 

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