Nelle prime ore del 7 ottobre del 2001, mentre i bombardieri statunitensi si levavano in volo nello spazio aereo dell’Afghanistan, all’epoca ancora governato dalla feroce dittatura ierocratica dei talebani, i principali obiettivi perseguiti dall’Amministrazione Bush erano, sostanzialmente, tre: eliminare i campi di addestramento che Al-Qaeda, con la connivenza del Mullah Omar, aveva installato su suolo afghano; rimuovere dallo scacchiere un regime i cui esponenti, pur essendosi resi utili in passato in funzione anti-sovietica, sembravano ormai aver imboccato una via incompatibile con gli interessi di Washington; assumere definitivamente il controllo di un Paese che, essendo collocato nel cuore dell’Asia, tra Cina, Iran ed ex repubbliche sovietiche, rivestiva, come riveste ancora oggi, una posizione strategica dal valore incalcolabile.
Oggi, tuttavia, ben diciannove anni dopo la deposizione dei talebani, è possibile affermare senza ombra di dubbio che anche gli Stati Uniti, come l’Unione Sovietica e l’Impero Britannico prima di loro, sono irrimediabilmente caduti nella trappola di quello che, in tempi non sospetti, era stato definito “Il cimitero degli imperi”.
Dei tre punti focali sopra esposti, infatti, si può dire che solo uno, il primo, sia stato effettivamente raggiunto, seppur assumendo i contorni di una vittoria di Pirro, dal momento che la minaccia del terrorismo islamico, lungi dall’essere estirpata, non solo è sopravvissuta, ma è anche proliferata, come testimoniano i focolai di violenza religiosa che continuano endemicamente a esplodere in Asia, in Africa e perfino nell’Europa occidentale, a tacere della sanguinaria epopea dello Stato Islamico, nato da una costola della stessa Al-Qaeda, la quale, pur scacciata dall’Iraq, ha seguitato a trovare nuova linfa in tutto il Medio Oriente, fino al punto di costituire, de facto, un proprio Stato, nel governatorato siriano di Idlib, ancorché celato dal silenzio dei media e dall’ombrello turco-saudita.
Per quanto attiene al secondo obiettivo, il regime talebano è stato sostituito da uno debole e del tutto incapace di esercitare un’autorità effettiva sul territorio del Paese, in prevalenza montuoso e difficilmente accessibile, con ampie porzioni di territorio ancora saldamente nelle mani dei talebani e, in alcuni casi, addirittura della locale branca dello Stato Islamico. Come si può agevolmente constatare grazie alla mappa qui riportata, il governo di Kabul, retto da Ashraf Ghani, controlla a stento le principali città afghane, mentre la maggior parte delle zone rurali è occupata militarmente dai ribelli, i quali, oltre a foraggiarsi tramite il traffico di oppio, il cui volume d’affari ha subito un’impennata proprio a partire dagli anni successivi all’invasione americana, godono di un ferreo sostegno popolare. I tal senso, è impossibile non ravvisare le inquietanti somiglianze tra l’attuale Stato afghano e la Repubblica Democratica dell’Afghanistan di Mohammad Najbullah, satellite sovietico abbandonato a sé stesso nel 1989, dopo un decennio di guerra, e dissoltosi nel sangue tre anni dopo.
Dal conclamato fallimento statunitense nella realizzazione di questo secondo punto discende, inevitabilmente, la mancata realizzazione del terzo.
A partire dalla fine del 2019, infatti, gli Stati Uniti hanno dato il via a una serie di colloqui di pace con i talebani, che si erano rifiutati di trattare con il governo di Ghani, ritenuto dagli stessi un mero fantoccio di Washington; sebbene la stampa occidentale abbia fatto passare sotto traccia tali incontri, menzionandoli solo fugacemente e analizzando il meno possibile il loro contenuto, si è trattato, a tutti gli effetti, di una resa statunitense. Le due delegazioni, convenute a Doha in più occasioni, hanno concordato, oltre a una serie di cessate il fuoco non sempre rispettati dai contendenti e ad alcuni scambi di prigionieri, un progressivo ritiro delle forze americane ed alleate dall’Afghanistan, da realizzarsi a partire dal gennaio del 2021 ed è difficile ipotizzare che l’avvento alla Casa Bianca del democratico Joe Biden possa determinare, in proposito, un’inversione di tendenza.
Sulla sorte che attenderà il governo di Kabul, una volta che le forze occidentali si saranno definitivamente ritirate dal Paese (anche se è, verosimilmente, gli Stati Uniti decideranno di mantenere in loco almeno una base aerea), è difficile effettuare pronostici certi, ma, al tempo stesso, risulta parimenti arduo ipotizzare, a parere di chi scrive, che il debole Ghani, così come i suoi eventuali successori, possa resistere a lungo, al pari di Najbullah, di fronte all’inevitabile aumento della pressione talebana, sostenuta da una popolazione che non ha mai davvero digerito il passaggio radicale da un regime shariatico a uno, peraltro inefficiente e corrotto, di stampo occidentale, tanto più che gli altri attori regionali, su tutti Iran, Cina e Russia, saranno sicuramente interessati a incunearsi nell’area, senza disdegnare, a tal fine, il ricorso a proxy locali.
Dalle vicende dell’Afghanistan, in conclusione, è possibile trarre un insegnamento fondamentale per chiunque sia interessato a studiare la geopolitica con un approccio pragmatico.
Innanzitutto, la Storia ha confermato di essere la migliore maestra che esista, poiché, anche se, talvolta, le sue lezioni sono poco chiare, non esita mai a ripeterle, in un ciclo continuo che va avanti dalla notte dei tempi.
In secundis, l’Occidente ha dimostrato, ancora una volta, di non essere fisiologicamente in grado di superare uno dei suoi difetti più radicati, esistente già in epoca classica, ossia l’incapacità patologica di immedesimarsi in culture diverse dalla propria e di pensare, dunque, come le medesime, privilegiando sempre e comunque un approccio di tipo imperialista, basato, non sempre senza fondamento, su una asserita superiorità intellettuale, la quale, tuttavia, nella maggior parte dei casi, ha finito con lo sfociare nella miopia e nell’arroganza.
Era ragionevole, dopo tutto, pensare di poter eliminare, per sempre e con la sola forza delle armi, una cultura millenaria, per quanto, ai nostri occhi occidentali, irrimediabilmente arretrata, soppiantandola con una distante anni luce dalle logiche del posto? D’altro canto, le scelte strategiche degli Stati sono da sempre dettate dagli uomini e dai gruppi di potere economico-finanziari che li guidano, i quali, in quanto umani, sono soggetti per natura all’irrazionalità.
Come spiegare, altrimenti, la scelta dell’Amministrazione Bush di rovesciare, a stretto giro di posta, prima l’Afghanistan talebano e poi Saddam Hussein, entrambi nemici atavici dell’Iran degli ayatollah, inserito da Bush stesso nel cosiddetto “Asse del Male”?
Non può non rimanere, dunque, l’amaro in bocca per una guerra che, diciannove anni e un numero incalcolabile di morti dopo, può essere tranquillamente definita inutile.