Con i suoi settantacinque milioni di abitanti e in virtù della posizione strategica che da sempre la contraddistingue, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan è da considerarsi oltre ogni ragionevole dubbio la maggiore potenza economica e politica del Vicino Oriente; Erdogan, eletto da pochi mesi Presidente della Repubblica dopo undici anni da Primo Ministro, è riuscito a dare un’impronta sempre più occidentale ad uno Stato già laico fin dai tempi di Kemal Ataturk, tanto da avviare nel 2005 le difficoltose pratiche di ingresso nell’Unione Europea.
Tuttavia, la Turchia non è soltanto la maggiore potenza non araba della regione insieme ad Israele e all’Iran, ma è anche un membro a tutti gli effetti della NATO (della quale costituisce la seconda forza combattente più numerosa dopo quella degli Stati Uniti) dal 1952, fatto, quest’ultimo, che sta mettendo non poco in imbarazzo il suo establishment governativo. Fare parte dell’Alleanza Atlantica, infatti, comporterebbe, almeno sulla carta, coesione ed unità d’intenti con la sua politica e, in questo caso, intervenire direttamente contro i miliziani dell’ISIS, i quali, già pesantemente bombardati dalla coalizione statunitense-europea- panaraba messa faticosamente insieme da Barack Obama, si accingono ora a conquistare la cittadina curda di Kobane, situata a soli cinquecento metri dal confine turco.
Un attacco di terra contro l’ISIS, macchiatosi nelle ultime ore dell’assassinio del cooperante britannico Alan Henning, così come autorizzare l’aeronautica statunitense ad utilizzare la base aerea turca di Inçirlik, sarebbe la conseguenza naturale della posizione diplomatica ufficiale di Ankara, ma, nonostante questo, i quasi centomila soldati turchi schierati al confine siriano si limitano ad osservare da lontano l’imminente massacro dei peshmerga curdi.
A cosa è dovuta questa inerzia di Erdogan, apparentemente contraria al suo status di alleato dell’Occidente?
Innanzitutto, la Turchia, repubblica laica, sì, ma pur sempre uno Stato a maggioranza islamica sunnita, costituisce, fin dagli albori della Guerra Civile Siriana, il più accanito oppositore contro il regime di Bashar Al-Assad. Quest’ultimo, sciita e legato a filo doppio con l’Iran, sciita anch’esso e principale avversario della leadership regionale turca, è stato più volte attaccato verbalmente a partire dal 2011 da Erdogan, il quale non ha mai negato di aver appoggiato, almeno nelle prime fasi del conflitto, l’insurrezione antigovernativa. Attaccare via terra l’ISIS significherebbe indebolire e spazzare via in poche settimane un nemico del regime di Damasco, nonché inimicarsi la Russia, da sempre protettrice ed armatrice di quest’ultimo e da tempo in trattativa con la Turchia per partership strategiche legate alla costruzione di oleodotti nella regione. Erdogan ha, pertanto, posto di fronte ad Obama come condicio sine qua non per un suo intervento una equiparazione della lotta all’ISIS con l’impegno occidentale ad abbattere il governo di Al-Assad, da tempo ormai tutt’altro che una priorità per la Casa Bianca e per le cancellerie europee.
Secondariamente, gli sforzi bellici e i disegni di sterminio dell’ISIS si stanno concentrando prevalentemente sui curdi siriani ed iracheni, appartenenti alla stessa minoranza etnica presente in Turchia con più di quattordici milioni di individui, tristemente nota per la sua ala oltranzista, il celeberrimo PKK, responsabile di centinaia di attentati terroristici da Istanbul ad Antiochia. Del tutto contrario a qualsiasi tipo di concessione indipendentista nei confronti dei curdi turchi, Erdogan rischierebbe, accorrendo in aiuto dei peshmerga, di ritrovarsi costretto a farlo, perdendo così tutta la credibilità e il prestigio conquistati laboriosamente in trent’anni di attività politica. D’altro canto, è probabile che un repentino aggravarsi della situazione nell’area, con relativo eccidio di civili curdi, obblighi ugualmente il presidente turco ad ordinare l’attacco, se non altro per evitare insurrezioni all’interno dei suoi confini.
Tutt’altro che scontato e, anzi, improbabile, è dunque da considerarsi un intervento militare della Turchia su mandato NATO.
In questa ottica, la decisione del parlamento turco di autorizzare il governo ad adottare la forza contro lo Stato Islamico è da considerarsi, purtroppo per le migliaia di combattenti che tentano disperatamente di fermare un genocidio, una mera formalità.
Marco D’Alonzo
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